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sabato 25 maggio 2024

Recensione di "Dove si riparano i ricordi" di Jungeun Yun

Buon sabato a tutti, amici lettori! Oggi vi porto verso un luogo magico e orientale, un piccolo paese coerano dove, improvvisamente, è spuntata una lavanderia incantata.

Buffo il fatto che, tra tante strutture, emerga proprio una lavanderia, eppure ha una sua utilità: quella di lavare via le macchie della propria anima, oppure di stirare le pieghe delle "brutture" della vita.


Trama: Cosa faresti se fosse possibile cancellare il tuo ricordo più doloroso? Dalla cima della collina che sovrasta un piccolo paese della Corea spunta una casa isolata. Da fuori non ha nulla di insolito, ma al suo interno c’è una lavanderia speciale, in cui è possibile lavar via anche le macchie che portiamo sul cuore. Ji-eun, la proprietaria, è lì ad aspettare con una teiera fumante. Fa accomodare chiunque entri e gli pone la stessa domanda: hai un ricordo doloroso che vuoi cancellare? Perché lei ha il potere di farlo, bisogna solo avere il coraggio di dar voce a quella sensazione, quel sentimento che non si possono proprio dimenticare. Così Jae-ha ricorda la propria infanzia, in cui spesso si è sentito abbandonato; mentre Yeon-hee rivive una relazione che l’ha fatta soffrire. Ji-eun li ascolta con attenzione, e poi accade l’inaspettato: Jae-ha e Yeon-hee comprendono che non basta eliminare i brutti ricordi per ritrovare la felicità. Le cicatrici che quelle esperienze hanno lasciato fanno parte di loro. Ma, con il tempo, da quelle cicatrici potrebbero sbocciare dei fiori. Così Jae-ha realizza che i genitori avevano buone intenzioni e Yeon-hee torna a credere nella magia dell’amore. La stessa Ji-eun capisce che deve smettere di nascondersi in un passato che non può cambiare. Tutti escono dal negozio più forti, sereni e consapevoli. Perché a volte guarire significa accettare il dolore. Significa amarsi nonostante gli errori commessi. Bisogna sorridere anche quando gli abiti che portiamo sono macchiati, perché possono essere la tavolozza più bella del mondo. Il primo fenomeno editoriale che arriva dalla Corea. Finalmente esce in anteprima in Italia. Mezzo milione di copie vendute, sempre al primo posto delle classifiche. Un libro rifugio a cui affidare il cuore. Ognuno ha la magia di realizzare quello che vuole. Non bisogna dubitarne, bisogna crederci.

Foto di Polina Tankilevitch (www.pexels.com)

Mentre sfogliavo le pagine e mi immergevo nelle storie di coloro che, giunti per caso alla lavanderia di Ji-eun nel villaggio di Marygold, confessavano i loro dolori e si preparavano a cancellarli, pensavo ai miei: che cosa, della mia vita, vorrei cancellare per sempre? Cosa, invece, vorrei mantenere, ma "stirare", in modo che faccia meno male?
Difficile dirlo. Quel che sono oggi lo devo anche e soprattutto ai momenti difficili che ho vissuto, alle porte sbattute in faccia, ai lividi provocati da parole urlate, sussurrate, dette dietro le spalle, a quel maledetto bullismo e alle propotenze dell'adolescenza, agli amori andati in frantumi, a quelli mai realmente sbocciati e, infine, a quelli impossibili e illusori.
Tutti abbiamo macchie da cancellare e pieghe da stirare e, forse, la lavanderia magica di Ji-eun ci farebbe comodo.
Sulla cima di quel villaggio al confine con il mare, giungono vari visitatori: c'è chi ha fatto tante scelte sbagliate e, per seguire un sogno, si è ritrovato senza niente, provocando delusione ai propri cari; c'è chi vuole cancellare la macchia dell'amore perché quello stesso amore l'ha abbandonata a una vita di stenti, con un figlio da crescere e un'etichetta da amante; c'è chi, presa dall'onda social, ha perso i contatti con la realtà e vorrebbe soltanto tornare ad essere una persona normale; c'è chi ha vissuto un'esistenza oscurata da quella di qualcun altro e ha imparato a sperare che il tempo trascorresse velocemente perché il bullismo era insopportabilmente doloroso.
Ji-eun ascolta comprensiva, prepara un tè ai propri clienti, fa indossare loro una maglietta bianca che, al solo contatto, si riempie di macchie più o meno grandi e scure; poi si passa alla lavatrice dove la maglietta, immersa in acqua e sapone, torna pulita. Infine, c'è l'azione del vento e del sole sul terrazzo che completa l'opera di rimozione dei ricordi "malati" che, magicamente, si trasformano in petali rossi, quegli stessi che avvolgono l'elegante veste nera di Ji-eun.

Foto di Esra Korkmaz (www.pexels.com)

Ma della proprietaria si sa qualcosa? Ji-eun sembra una ragazza, ma è centenaria. Ha vissuto molte vite, ha cambiato luoghi, soprattutto per poter ritrovare i genitori. Quand'era poco più di una bambina e i genitori si apprestavano a parlarle dei suoi due poteri, lei scomparve improvvisamente, proprio a causa di quella magia che non era in grado di controllare.
Una devastante nostalgia pervade l'animo di Ji-eun, anche un senso di colpa profondo. Solo stando a contatto con i clienti della lavanderia che, pian piano, diventano amici e quindi una "famiglia", Ji-eun ritroverà quel calore perduto, ormai lontano secoli, giungendo persino a sentire nuovamente il battito del proprio cuore.

"Dove si riparano i ricordi" non è sicuramente un libro per tutti. Bisogna avere un po' di "dimestichezza" con la narrativa orientale per poterlo apprezzare e io, cresciuta con i manga e gli anime, l'ho amato subito.
E' un romanzo molto delicato e ricco di riflessioni che conducono dove? A pensare a un concetto molto importante, spesso sottovalutato, se non addirittura ritenuto banale: vivere il presente con tranquillità, senza ansie e preoccupazioni, godendosi quel che si ha, è forse il miglior modo di condurre la propria esistenza, amando non solo gli altri, ma anche sé stessi.
Infine, nessuno di noi deve essere condizionato dai ricordi e, quindi, dal passato. Proprio come le magliette lasciate ad asciugare, sul nostro animo è giusto far arrivare qualche raggio di sole, lasciando andare inutili pesi che ci tengono ancorati a terra.
Un consiglio per i futuri lettori: lasciate volare l'immaginazione. Le pagine di questo romanzo sono intrise di profumo di tè, di petali di camelia, di abiti puliti, di sole e mare, ma anche di qualche nostalgico raggio di luna.
Prima di lasciarvi con qualche estratto, vi chiedo: sapete cos'è il kimbap? A forza di nominarlo (Ji-eun ne è ghiotta), l'autrice mi ha messo in curiosità e ho scoperto che si tratta di un cibo molto simile a quelle rondelle giapponesi grandi, farcite di riso e altri ingredienti (di solito granchio, avocado e gambero), contenute in uno strato d'alga, che si mangiano nei nostri ristoranti a tema "sushi".
A presto e buon fine settimana!

Foto di Vishnu Murali (www.pexels.com)

«Se una cosa dentro la mente fa male, puoi sempre tirarla fuori, eliminare la macchia, stenderla al sole e lasciarla asciugare. Alla fine, ti sentirai tranquilla, con una mente pulita e asciutta».

«Come si pulisce la mente? O forse è il cuore il luogo dell'anima?»

«Jae-ha aveva l'abitudine di focalizzarsi sempre sulle pupille delle persone: perché la bocca può mentire, ma gli occhi no. Le parole sono il mezzo di comunicazione del pensiero. mentre è quasi del tutto impossibile fermare il tremolio delle pupille quando si mente. Come accade con coloro che dicono "Ti amo" con le labbra, ma negli occhi non hanno nessuna emozione».

«Si piange e si soffre quando si perde l'amore. La verità è che la cosa più triste è l'incapacità di odiare una persona per colpa dei ricordi felici. Si vive ancorati a quei momenti lieti e pieni d'amore».

«Se hai sbagliato, puoi scusarti e se qualcun altro ha sbagliato, puoi accettare le sue scuse e comprenderlo. E se non riesci a recuperare completamente, accettalo così com'è. Come può la vita essere sempre perfetta? Perdersi, tremare, fallire e cadere. E nonostante ciò, cercare sempre di rialzarsi per trovare un nuovo equilibrio».

«La ragione per cui è possibile sopportare l'inverno all'interno del proprio cuore è la speranza che passi. La speranza è ciò per cui le persone vivono. E' la speranza che la primavera sbocci nel cuore, fino a scaldare l'estate, per poi arrivare al fresco autunnale, ciò che mantiene in vita le persone. Come si potrebbe tollerare l'esistenza senza la speranza?»

«Doveva gettarsi tra le braccia del mare. Aveva bisogno di essere avvolto dall'abbraccio del mare. Il mare racchiude molte storie, accoglie i segreti che le persone custodiscono nel cuore e li dissolve con le proprie onde. E' per questo che il mare è così profondo».

«Si dice che la nostalgia si trasforma in stelle brillanti. Ji-eun osservò il cielo infinito, pensando alle stelle che risplendevano nella notte, invisibili durante il giorno. Rivolse lo sguardo a quel cielo così simile alle pupille di sua madre, fece un profondo respiro e si convinse che in quella giornata sarebbero accadute cose belle».

domenica 7 gennaio 2024

Recensione di "Oscar e la dama rosa" di Eric-Emmanuel Schmitt

Buonasera amici! Avevo promesso che sarei tornata prestissimo ed eccomi qui! Come detto ieri sera, quello appena passato e quello attuale non sono i più bei periodi che abbia mai vissuto, ma i libri mi hanno aiutata a isolarmi, o meglio, a vivere altre vite, a sognare, a provare nuove emozioni.

Oggi vi porto a conoscere "Oscar e la dama rosa" di Eric-Emmanuel Schmitt":


Trama: Testa Pelata ha dieci anni e il soprannome gliel'hanno dato per via del cranio completamente pelato a causa delle cure per il cancro a cui si sottopone. La sua vita trascorre in ospedale, in un reparto riservato ai bambini con malattie gravi, i suoi unici amici.Soffre, sa che cure e trapianti non hanno avuto buon esito, sa che presto morirà, eppure quello che a prima vista sembrerebbe un quadro funesto si rivela una meravigliosa e movimentata avventura per merito di Nonna Rose, una “dama rosa”, come vengono chiamate le volontarie che prestano assistenza ai degenti, per via, appunto, del camice rosa che indossano. Nonna Rose trasforma gli ultimi dodici giorni di vita del bambino in un’epopea rutilante di avvenimenti, gli fa vivere l’esistenza che non vivrà, lo mette in grado di vedere esauditi desideri che non avrebbe avuto il tempo di desiderare.

In questo periodo terribile, ho percorso le corsie di un ospedale. Il cuore si è stretto quando sono arrivata davanti a un muro cui erano appesi alcuni lavoretti in ceramica dipinta. Gli autori erano dei bambini, malati oncologici, piccole anime senza speranza o la cui vita era appesa a un filo sottile, quasi trasparente. Mi sono detta - e me lo dico sempre in realtà - che non è giusto nascere per morire dopo pochi anni, trascorrendo la propria infanzia tra le bianche mura di un ospedale, impregnate di odore di disinfettanti e medicine, ed essere osservati con pietà dagli adulti, quando adulti quei bambini non potranno mai diventarci. Perché soffrire?
Oscar se lo chiede e lo domanda anche a Nonna Rose, una volontaria che va a trovarlo in ospedale. Il bambino è malato oncologico. Ha subito un'operazione, ma non è andata a buon fine. Proprio quella signora così strana, che per sembrare forte ha raccontato di essere stata una lottatrice di wrestling, restituisce una speranza e un pizzico di fede a Oscar. Il bimbo ha un'aspettativa di vita di una decina di giorni, ormai non potrà più riprendersi, ma Nonna Rose gli dice che ogni giorno lui crescerà di 10 anni. Nonna Rose, di fatto, regala un'esistenza normale a Oscar che diventa quindi adolescente, dà il suo primo bacio a Peggy Blue (la bambina con il colorito blu), fino ad essere adulto e poi anziano. Un'intera vita racchiusa in pochi istanti durante i quali Oscar, sempre su consiglio di Nonna Rose, scrive a Dio, raccontandogli la sua esperienza e chiedendogli sempre di venirlo a trovare. Perché un Dio che ti ama non può farti soffrire così tanto, si dice Oscar. Eppure la sofferenza fa parte della vita. Anche Dio ha sofferto, gli spiega Nonna Rose, un Dio cui l'uomo si sente più vicino.

Foto di Myléne da Pixabay

Attraverso uno stile coinvolgente e molto dolce, tipico delle riflessioni fatte dai bambini, l'autore ci trasporta nel cuore grande di Oscar e di tutti quei piccoli malati terminali per i quali le cose più importanti sono la speranza e la vicinanza delle persone sensibili.

Vi lascio con qualche frase tratta dal libro e vi aspetto con la prossima recensione, sempre qui, tra le pagine virtuali del blog!

«Pensaci un attimo, Oscar. A chi ti senti più vicino? A un Dio che non prova niente o a un Dio che soffre?».
«A quello che soffre, è chiaro. Ma se fossi Dio come lui, se avessi i suoi mezzi, avrei evitato di soffrire».
«Nessuno può evitare di soffrire. Né Dio né tu. Né i tuoi genitori né io».

«La gente ha paura di morire perché teme l'ignoto. Ma l'ignoto, per l'appunto, non si sa cosa sia. Io ti propongo di avere fiducia anziché paura, Oscar. Guarda la faccia di Dio sulla croce: subisce la pena fisica, ma non sente la pena morale perché ha fiducia. A quel punto anche i chiodi fanno meno male. Continua a ripetersi: mi fa male, ma non può essere un male. Ecco qual è il beneficio della fede. Volevo fartelo vedere».

«Ho cercato di spiegare ai miei che la vita è un regalo strano. Da principio la si sopravvaluta, si crede di aver ricevuto la vita eterna. Poi si sottovaluta, la troviamo marcia, troppo corta, si è quasi pronti a buttarla via. Alla fine ci si rende conto che non è un regalo, ma un prestito. Allora si cerca di meritarselo. Ho cent'anni, so di cosa parlo. Più si invecchia, più è necessario avere gusto per apprezzare la vita. Bisogna diventare raffinati, artisti. Qualsiasi imbecille può gioire della vita a dieci o vent'anni, ma a cento, quando non si riesce più a muoversi, bisogna usare l'intelligenza».

giovedì 8 dicembre 2022

Recensione di "Il quadro mai dipinto" di Massimo Bisotti

Buonasera a tutti amici e bentornati a Sàkomar che, già da qualche settimana, ha cambiato colore. Amo l'azzurro da sempre, ma un rosa più sfumato rendeva il testo più leggibile e ho effettuato questa modifica sulla base di un consiglio molto gradito.

Dove vi porto oggi? Tra Roma, Venezia e Santiago, con "Il quadro mai dipinto" di Massimo Bisotti.


Trama: Patrick è un insegnante e un pittore con l'ossessione per la perfezione. In una mattina di giugno entra per l'ultima lezione nella sua aula dell'Accademia di Belle Arti. È pronto a lasciare Roma per ripartire da zero a Venezia, città fatta d'acqua e d'incanto. Torna a casa e prima di partire decide di andare in soffitta per dare un ultimo sguardo al quadro che ritrae la donna che ha molto amato, la donna il cui ricordo porta sempre con sé. Ma, quando scopre la tela, la vede vuota: la donna sembra avere abbandonato il quadro. Sgomento, Patrick copre nuovamente il dipinto. In fretta e furia abbandona la soffitta e Roma, e corre all'aeroporto. Durante il volo, però, batte la testa e all'arrivo si ritrova confuso, non riesce a ricordare bene il motivo per cui è partito. Ma in tasca ha un biglietto con un indirizzo e un nome: "Residenza Punto Feliz". Si recherà là e troverà una nuova e strana famiglia pronta ad accoglierlo. Miguel, il proprietario della pensione, uno spagnolo saggio cui è facile affidarsi; Vince, gondoliere con il cuore spezzato da un amore andato male; e il piccolo Enrique, curioso ed entusiasta come solo i bambini sanno essere. La nuova vita di Patrick scorre tra amnesie e scoperte, finché a una festa incontra Raquel e non ha dubbi: è lei, la donna che è fuggita dal suo quadro. Un libro sul perdersi e il ritrovarsi, sulla memoria e l'accettazione di se stessi, sull'importanza di restare fedeli al precetto più vero e necessario: "mai controcuore".

Avrei voluto scrivere di più oltre alla quarta di copertina che, in qualche modo, tratteggia la trama del libro stesso, ma non ci riesco. Purtroppo questo romanzo, se così si può chiamare, è stato una totale delusione, a dispetto della copertina molto bella e di quanto prospettavano le prime pagine.
Prima che Patrick, insegnante di arte e pittore, avesse un'amnesia temporanea dovuta a un forte colpo alla testa preso in aereo durante una turbolenza, stava insieme a Raquel. Ebbene sì, ma i due si erano separati per motivazioni difficilmente comprensibili tra ragionamenti filosofici di cui il libro è infarcito. Probabilmente perché Raquel vedeva Patrick eccessivamente concentrato sulla sua passione, la pittura, tanto da trascurarla (e qui dovrò fare una riflessione personale: la trascurava così tanto da arrivare a farle un ritratto... ecco, persino questo punto non è realistico).
Grazie al padre di lei, tale Miguel - che ha avuto tre figli, ovvero Raquel, Vince e Enrique, da tre donne diverse -, e a un bigliettino che il pittore si ritrova nella tasca (come?), nonostante l'amnesia, Patrick capirà di dover andare a Venezia a ritrovare la "Residenza Punto Feliz", dove poi riuscirà a imbattersi nuovamente in Raquel, a innamorarsi ancora una volta di lei e a recuperare la memoria. In tutto ciò, prima di prendere quell'aereo Roma-Venezia, si dovrà specificare che Patrick si era accorto che dal quadro che stava dipingendo era scomparsa la donna che era certo di aver ritratto... Raquel è quella donna, ma solo incontrandola di nuovo, la riconoscerà.


Foto di hitesh choudhary (da: https://www.pexels.com/)

La trama, estremamente povera, è oltretutto piena di passaggi banali. Uno in particolare, avrebbe dovuto essere, forse, un momento tragico, che a me ha fatto invece sorridere. A Santiago, Patrick entra nella cattedrale, mentre Raquel e Vivien (ex moglie di Vince, suo fratello) stanno al bar, dove lo aspetteranno. Quando Patrick esce dalla cattedrale, trova il bar chiuso, le due donne che ne sono andate e lui che non sa come rintracciarle perché si è perso il cellulare lasciandolo in un taxi. Cosa fa il nostro paladino? Comincia a girare a vuoto, finché trova un B&B da dove riesce a chiamare Miguel, che non gli risponde. Pensando di essere stato miseramente abbandonato, prenota un volo per Roma e torna a casa, dove un suo amico lo terrà a cena. Dopo una giornata, lo raggiunge Raquel, facendogli una sorpresa mentre era al bar a fare colazione, e spiegando che lei e l'altra donna lo avevano cercato senza trovarlo, che senza cellulare non sapevano come rintracciarlo e che Miguel non aveva risposto perché stava in ospedale. Una serie di sfortunati eventi direi!
Tutto ciò appare costruito esclusivamente per fare da cornice a una serie di frasi/pensieri - anche molto belli se presi singolarmente - che messi insieme avrebbero composto un puzzle denominato "romanzo".

Mi spiace sempre scrivere una recensione negativa, ma è uno dei libri che meno ho apprezzato in tutta la mia vita da lettrice. Si tratta di un testo semplicemente irrealistico: non è possibile che, in una conversazione, due persone si rispondano a stoccate poetiche. L'unico frammento di poesia che leggo, una volta al secolo, è quello contenuto nelle frasi dei Baci Perugina perché, per il resto (ma direi per fortuna!) nessuno a delle semplici domande mi risponde con digressioni poetiche sull'amore.
Frequento i social e Massimo Bisotti lo avevo sempre abbinato ad alcuni pensieri, devo dire meravigliosi (perché lo sono! Ma non vanno incollati tra loro per farne un romanzo!), che comparivano sotto immagini e post vari. Avevo poi notato in libreria alcuni volumi che riportavano il suo nome, ma non farò più l'errore di comprare un suo romanzo. A ognuno la sua professione: Bisotti, a mio avviso, può fare - e gli riesce bene - il poeta, non lo scrittore.
Vi lascio con qualche pensiero tratto dal libro che, se fosse stato presentato invece come una raccolta di poesie/riflessioni, sarebbe stato sicuramente più apprezzato.

«[...] se hai paura di amare qualcuno, è proprio con quel qualcuno che devi stare».

«Non ci stanchiamo mai di veder nascere sorrisi sul viso di chi amiamo, sono sempre una conquista».

«Le persone più incantevoli al mondo hanno sempre un vissuto complesso. Sono spesso le più difficili da amare ma anche quelle che sanno dare di più».

«Sai, c'è un momento nella vita di una persona in cui il suono abita lo spazio. E' il momento in cui si desidera essere una cosa sola, una sciocca, smielata e preziosa cosa sola. Allora capisci che il tuo tempo e il suo tempo si fermano in quel preciso momento. E in quel momento non c'è nessun altro posto in tutto l'universo in cui il tempo abbia voglia di fuggire».

«[...] l'amore ha un suo spirito, che lo si mette alla prova con la memoria, con i ricordi. Non importa che non esista più nulla di materiale, fin quando esistono i ricordi, finché la memoria non ci abbandona, le persone e le storie continuano a vivere».

lunedì 14 novembre 2022

Recensione di "Momenti di trascurabile felicità" di Francesco Piccolo

Buonasera, cari amici lettori! Vi è mai capitato di pensare, nell'arco di una giornata, quali siano quei momenti, o meglio, quei dettagli che vi fanno piacere, nonostante siano trascurabili?
Dopo aver letto il libro di Francesco Piccolo "Momenti di trascurabile felicità" mi sono soffermata a riflettere e, nella mia mente, ho stilato una breve lista:

- quando apro gli occhi la domenica mattina, sotto le coperte calde e posso girarmi dalla porta opposta, senza che il suono della sveglia mi metta fretta. Ancora casa è silenziosa, il sole filtra sotto le serrande, ma posso concedermi di rilassarmi;
- quando riesco a mettermi seduta in bus o in metro (o anche in piedi, senza folla intorno), per poter leggere tranquillamente un libro;
- quando, terminate le consuete ricerche in biblioteche, archivi, siti archeologici o chiese, posso ritagliarmi anche una mezz'ora di tempo per fare una passeggiata tra i vicoli di Roma e prendere un caffè;
- quando, raramente, mi concedo una colazione al bar con le mie sorelle;
- quando il sole estivo mi riscalda e mi fa venire i brividi;
- quando ricevo un regalo inaspettato;
- quando il barista, vicino al caffè, mette un cioccolatino;
- quando le persone incontrate casualmente mostrano gesti di gentilezza e di educazione, come un semplice "grazie", "buongiorno", oppure mi tengono la porta;
- la soddisfazione di trovare anche una sola riga che menzioni l'oggetto delle mie ricerche sempre complesse e considerate impossibili;
- quando ricevo un complimento, anche se non so mai cosa rispondere perché mi imbarazzo;
- quando le persone cui voglio bene mi sorridono;
- quando il cellulare squilla ed è la persona, quella persona, cui stavo pensando che pensa a sua volta a me.



Trama: Possono esistere felicità trascurabili? Come chiamare quei piaceri intensi e volatili che punteggiano le nostre giornate, accendendone i minuti come fiammiferi nel buio? Sei in coda al supermercato in attesa del tuo turno, magari sei bloccato nel traffico, oppure aspetti che la tua ragazza esca dal camerino di un negozio d'abbigliamento. Quando all'improvviso la realtà intorno a te sembra convergere in un solo punto, e lo fa brillare. E allora capisci di averne appena incontrato uno. I momenti di trascurabile felicità funzionano così: possono annidarsi ovunque, pronti a pioverti in testa e farti aprire gli occhi su qualcosa che fino a un attimo prima non avevi considerato. Per farti scoprire, ad esempio, quant'è preziosa quella manciata di giorni d'agosto in cui tutti vanno in vacanza e tu rimani da solo in città. Quale interesse morboso ti spinge a chiuderti a chiave nei bagni delle case in cui non sei mai stato e curiosare su tutti i prodotti che usano. A metà strada tra "Mi ricordo" di Perec e le implacabili leggi di Murphy, Francesco Piccolo mette a nudo i piaceri più inconfessabili, i tic, le debolezze con le quali tutti noi dobbiamo fare i conti. Pagina dopo pagina, momento dopo momento, si finisce col venire travolti da un'ondata di divertimento, intelligenza e stupore. L'autore raccoglie, cataloga e fa sue le mille epifanie che sbocciano a ogni angolo di strada. Perché solo riducendo a spicchi la realtà si riesce ad afferrare per la coda il senso profondo della vita.

Foto di Ekrulila (da: https://www.pexels.com/)


E ora la mia recensione: non sarà il libro del secolo, né il migliore che abbia mai letto, ma l'ho trovato carino, anche se a tratti, forse, un po' banale. Eppure, Francesco Piccolo riesce, attraverso la sua personale esperienza, a descrivere tutti quegli istanti, quelle particolarità di una giornata, che ci rendono felici, anche se passano totalmente inosservate. Così trovare il numero giusto di scarpa diventa ciò che davvero ti fa sorridere, soprattutto se hai il piede grande (nessuno meglio di me può capirlo... impossibile trovare scarpe da donna taglia 42); non dover più aspettare ben due passaggi a livello per arrivare dalla tua ragazza; quell'amico che, senza accorgersi del fuorigioco, fa il giro in tondo dell'isolato esultando come se la Nazionale avesse immediatamente vinto i Mondiali; le canzoni d'amore struggenti a Sanremo; uno scaffale di biscotti al cioccolato; e così via.
Si tratta di una lettura leggerissima, da fare a più riprese, quasi un dizionario da consultare. Sicuramente i romani si troveranno maggiormente a loro agio perché Francesco Piccolo inquadra gli episodi tra le stradine di una Roma estiva, di una Roma il sabato sera, di una Roma a volte caotica e disordinata che è pur sempre Roma.

sabato 1 ottobre 2022

Recensione di "Ogni giorno un miracolo" di Alberto Simone

Buongiorno e buon 1° ottobre, amici lettori! Le foglie di mille colori iniziano a volteggiare sospinte dal vento... non vi viene voglia di avvolgervi in una bella copertina calda, sorseggiando un té, mentre sfogliate un buon libro? A me sì!
Proprio per questo, vi propongo un'altra recensione, sperando di darvi spunti o suggerimenti per le vostre letture.


Ho letto questo volumetto non per mia diretta scelta. Non rientra propriamente nel genere di libri che preferisco, ma la promozione Tea prevedeva di associare due pubblicazioni (questo l’ho acquistato insieme a “Il museo delle promesse infrante”).

Alberto Simone fa un excursus filosofico, psicologico, motivazionale sulla bellezza della vita e sul perché dovremmo sempre e comunque apprezzarla. È molto evidente l’avvicinamento dell’autore alle filosofie orientali, nonché a un certa visione della vita, devo dire incentrata su un certo positivismo. La vita è un dono e bisogna amarla, cercando di superare tutto quel che è negativo, tutto ciò che è superfluo e che potrebbe condurre a uno status depressivo (come la pandemia ci ha “insegnato”). Bisogna cercare di ascoltarla, lasciandosi a volte guidare dai “segnali”, o forse sarebbe meglio dire dal cuore, dai sentimenti, da ciò che avvertiamo dentro di noi, senza avversarla.

Foto di Ksu&Eli (da: https://www.pexels.com/)

Il libro di Alberto Simone offre una serie di riflessioni, basate anche sulla vita dell’autore, per apprendere “l’arte di amare la vita”, che non è affatto semplice. Chi di noi non ha mai pensato di aver sbagliato tutto, di aver fatto scelte errate, di non essere più in tempo per trasformare almeno qualche aspetto della propria esistenza in quel che sognava? A tutti noi è capitato, ma ognuno reagisce in modo diverso: c’è chi combatte e si rimbocca le maniche, cercando di guardare e sfruttare i lati positivi, c’è invece chi viene sommerso dalla depressione, fino a odiare la propria esistenza. Non è una colpa, non esiste ciò che è giusto o ciò che è sbagliato e bisogna imparare a perdonarci. 
Tutto però può condurre il lettore stesso a riflettere: come sto affrontando il mio percorso? Posso migliorare? Posso smetterla di sentirmi colpevole per qualcosa e provare ad andare avanti? Sono sempre stato me stesso? La mia vita è attinente con le mie scelte o con quelle altrui?

Consigliato se state cercando una lettura riflessiva, che punti anche sull’autostima e sul miglioramento di sé stessi.

venerdì 12 novembre 2021

Recensione di "Le due culture" di C. P. Snow

Buon pomeriggio! Torno sul mio blog per parlarvi di una lettura un po' particolare, che non conoscevo. La signora che me ne ha parlato mi ha anche prestato il libro. Non si tratta di un saggio scorrevole, ma riflessivo: "Le due culture" di C. P. Snow.


C'è chi di letteratura non ne vuole sentir parlare, chi il latino lo considera una lingua morta, ma c'è anche chi con la matematica ci ha litigato da tempo e non ha mai compreso la fisica.
Le due culture citate da Snow sono esattamente la cultura umanistica e quella scientifica, in eterno contrasto tra loro. Un classico della storia: sin da quando ho memoria, sono sempre state "materie" contrapposte, ma non per questo totalmente separate. Tra le due infatti può esserci interazione.
Ho letto i commenti e le recensioni in merito al volumetto in questione: alcuni sostengono che gli scienziati cerchino la verità, mentre gli umanisti la bellezza. Ma se non fosse così? 
Posso guardarla dal mio punto di vista personale e sostenere che anche gli umanisti cerchino la verità. Sono un'archeologa. Di certo non sono insensibile davanti alla magnificenza di una scultura quando si presenta l'occasione di osservarla, o alla bellezza incarnata da un mosaico o da quegli affreschi che tanto amo, ma signori, forse sarete sorpresi: l'archeologo cerca la verità. Non si mette alla volontaria ricerca del dettaglio "bello". No, l'archeologo cerca la verità storica, tenta in ogni modo e con i mezzi posti a sua disposizione (si includano i c.d. mezzi "scientifici") di ricostruirla, anche quando le tracce sono veramente labili. Incrocia le fonti scritte e i reperti materiali per poterne venire a capo, e basa la sua esistenza sull'analisi degli strati di terra che sono contenitori di informazioni preziosissime.


Snow, ovviamente, generalizzava e forse, alla sua epoca, l'archeologo - che è la figura più scientifica tra quelle umanistiche - procedeva ancora secondo una concezione antiquaria.
Posso dire, però, che archeologo a parte, le due visioni di Snow non siano totalmente da considerare superate, anzi, basti pensare alla formazione in Italia. La suddivisione tra liceo classico e liceo scientifico (che per esperienza, molto spesso, di scientifico non ha nulla) fa sì che le neo matricole si dividano in chi ama la matematica, la scienza, la fisica e chi ama la letteratura, la storia, la storia dell'arte, disprezzandosi a vicenda. Vi dirò da soggetto atipico che, dopo aver frequentato il liceo scientifico si è iscritta poi ad archeologia (penando non poco con il latino e il greco), che la cultura scientifica e quella umanistica dovrebbero rivestire la stessa importanza perché entrambe contribuiscono a formare una persona intelligente e produttiva.
In Italia, attualmente, ci troviamo esattamente nella situazione che Snow descriveva per l'Inghilterra nel 1959: le persone dedite allo studio delle materie scientifiche studiano la metà degli umanisti, eppure trovano immediatamente impiego con retribuzione mediamente elevata; gli umanisti sono disoccupati o scarsamente retribuiti, pur avendo studiato oltre 10 anni.
Che cos'è che dovrebbe cambiare, si domandava Snow? La nostra educazione. Ebbene sì, bisognerebbe iniziare a capire che entrambi gli aspetti sono fondamentali per far sì che la società proceda e si evolva. Una "rivoluzione scientifica" che investe un X paese farà sì che quest'ultimo proceda tecnologicamente, ma dal punto di vista sociale e delle radici identitarie sarà scarso, anzi, rischierebbe di perderle tragicamente. Snow ne parlava tanti anni fa... adesso in Italia ne osserviamo le conseguenze.


E ancora: perché non integrare le due cose? Porto ancora il confronto con il mondo dei beni culturali. Se davvero funzionasse (ormai è sempre più un'utopia dal mio punto di vista, ma la speranza è l'ultima a morire...), potremmo osservare una sinergia tra scienziati e umanisti. Come? Per esempio, nell'individuazione di un'opera falsa non lavorano solo gli storici dell'arte o gli archeologi che, con la loro esperienza, potranno dare opinioni in merito, bensì anche esperti in diagnostica (fisici) che applicheranno strumentazioni e metodologie scientifiche volte a smascherare "l'inganno".


Potrei farne mille di esempi simili, ma il problema rimane solo uno: una integrazione dei due "mondi" culturali a livello centrale, partendo proprio dall'educazione. Sono sempre stata convinta che un liceo unico sia una soluzione. Perché approfondire più il latino e il greco tralasciando la matematica e la fisica? Si approfondiscano tutti gli aspetti per formare persone in grado di adattare le proprie abilità, persone in grado di comprendere le varie sfaccettature che compongono la realtà a 360°, senza giungere a criticare chi ama risolvere equazioni, o chi invece ama scrivere romanzi. E nel mondo del lavoro si collabori! Non è richiedendo "tuttologi" che si produce occupazione, né ricchezza sia dal punto di vista economico che culturale! Questo, purtroppo, siamo costretti - soprattutto noi della fascia 30-40 - a vederlo ogni giorno: richiesta figura con 10 anni di esperienza in economia, arte, museologia, in possesso di laurea magistrale, dottorato, scuola di specializzazione, etc., in grado di parlare francese, tedesco e inglese, automunito, che usi il PC a tutte le ore del giorno e della notte, capace di lavorare in team, ma anche in autonomia.
Chissà se Snow questo lo aveva previsto quando le parole della sua conferenza tenuta a Cambridge confluirono nel volumetto? Forse persino lui era ottimista nel volgere lo sguardo al futuro... e invece...


«Di fatto, la distanza che separa scienziati e non-scienziati è molto meno superabile fra i giovani di quanto lo fosse anche trent'anni fa. Trent'anni fa le culture non si rivolgevano da tempo la parola: ma almeno si sorridevano freddamente, attraverso l'abisso che le separava. Ora la cortesia è venuta meno, e si fanno le boccacce. Non si tratta soltanto del fatto che oggi i giovani scienziati sentono di far parte di una cultura in ascesa, mentre l'altra è in ritirata. Si tratta anche, che per essere brutali, del fatto che i giovani scienziati sanno che, con una laurea mediocre, otterranno un buon posto, mentre i coetanei e colleghi di Inglese o di Storia saranno fortunati se guadagneranno i due terzi. Nessun giovane scienziato provvisto di un certo talento penserebbe di non essere ricercato o di fare un lavoro ridicolo, come pensava il personaggio di Lucky Jim, e di fatto, una parte del malcontento di Amis e dei suoi compagni è il malcontento dei laureati in lettere sotto-occupati.
C'è una sola via per uscire da questa situazione: e naturalmente passa attraverso un ripensamento del nostro sistema educativo».

lunedì 2 marzo 2020

Recensione di "Mancarsi" di Diego De Silva


Buongiorno amici e ben ritrovati in questo piccolo spazio personale e un po' letterario. Sono felice di poter dire che, dopo ormai qualche anno, la saga di Sàkomar continua ad avere lettori e questo non può che farmi piacere, in seguito alla notifica di vendita da parte di Youcanprint. Significa che, nonostante la poca esperienza, sono riuscita a dar vita ad alcuni personaggi della letteratura fantasy con un carattere e una storia ben definiti.

In questa giornata piuttosto ventosa, con tanto di cielo grigio che, invece di affacciarsi sul periodo primaverile, rinvia echi di un inverno che forse non c'è mai stato, mi ritrovo a scrivere qui di un ultimo libro che ho letto. Un libro composto di poche pagine, ma di molti concetti: si tratta di "Mancarsi" di Diego De Silva.
Non conoscevo l'autore, non conosco le altre sue opere, eppure il titolo ha attirato la mia attenzione. "Mancarsi", cosa evoca? Sicuramente nostalgia, assenza improvvisa di una persona che ha suscitato sentimenti forti.


Trama: Nicola e Irene non si conoscono e non sanno di avere almeno due cose in comune. La prima è il bistrot dove ogni giorno si concedono un po' di solitudine, per osservare la gente o semplicemente lasciarsi assorbire dai propri pensieri. La seconda è una mancanza, l'amore. Entrambi, infatti, si sono lasciati un matrimonio alle spalle: Irene ha capito di non amare più suo marito e se n'è andata, Nicola è rimasto vedovo prima che la distanza accumulata negli anni tra lui e la moglie li consegnasse a una tollerabile infelicità. Sarebbero perfetti l'uno per l'altra, se s'incrociassero anche solo una volta...
Attraverso il racconto die due esistenze che sembrano destinate a scorrere parallele, De Silva ci regala un'opera dai toni intimi, conducendoci nel territorio misterioso della nostalgia, dove il rimpianto per il passato si sovrappone al desiderio e alla speranza per ciò che deve ancora accadere.


"La perfetta storia d'amore di due persone che si sfiorano senza incontrarsi mai": questa la frase scritta sul retro della copertina, un concetto che mi ha conquistata.
Quante volte mi sono soffermata a pensare: "E se la persona giusta per me fosse nella mia stessa stanza, ma non riuscissimo ad avere un contatto? Quante volte ci siamo visti, senza soffermarci mai? Magari i nostri sguardi si sono persino incrociati... Le nostre vite continuano a scorrere, inconsapevoli l'uno dell'esistenza dell'altro, eppure con un granello di speranza racchiuso nei secondi che passano".
E' la probabilità, quel concetto che meraviglia, affascina, a volte stupisce. "Io e te... avresti mai pensato di essere qui, in questo momento, con me? Non ti avrei mai immaginato, ma d'improvviso è accaduto". Frasi simili, ascoltate solo nei film, eppure capita di pronunciarle a volte... in quelle volte in cui l'amore ti sfiora e ti suggerisce di lasciarti andare alle emozioni. Questa riflessione per introdurre alla recensione vera e propria. 
Irene, come già riportato nella trama, vive ormai quella monotonia del rapporto matrimoniale: un'infelice felicità abitudinaria, quasi una condanna. Si è anullata, i suoi desideri, i suoi obiettivi non esistono più, mentre recita la parte della moglie perfetta. Da quando accade neppure lo ricorda. 
Prova affetto verso il marito, ma un sentimento simile non basta a tenere in piedi un matrimonio. Alcune unioni procedono velate d'apparenza, spesso per non far ricadere tutto sui figli che finiscono che ricoprire il ruolo di collante. Non ridono più Irene e suo marito e nemmeno riescono a dirselo, pur essendone terribilmente consapevoli. Non si divertono, non c'è sintonia.


Nicola, invece, crede sia venuto il momento di chiedere a sua moglie di provare ad avere un figlio. Trova il coraggio, ci riesce e si sente rifiutato. Già la richiesta esclusiva da parte di Nicola fa riflettere: non è un desiderio condiviso e tanto basta per comprendere la totale mancanza di dialogo tra le due parti. Anche loro sono caduti nell'abitudine: si recano al bistrot, sempre lo stesso tavolo, solito menù, provano a scambiarsi i propri pensieri finendo per litigare. Non sono più sulla stessa lunghezza d'onda. E poi un giorno, la moglie di Nicola muore, investita mentre era in bicicletta e tutto rimane così sospeso a mezz'aria: parole spezzate tra i denti (citando Laura Pausini in "Bastava"), desideri mai realizzati, progetti rimasti incompiuti. Una strana mancanza assale Nicola, anche se è ben presente la consapevolezza di una vita che non avrebbe potuto proseguire così.
Intanto Irene vuole riprendersi la propria esistenza, provando a rimettersi in gioco. E' così che a volte fanno le donne: si lasciano tutto alle spalle e, stupidamente, si sentono in dovere di poter riassumere autostima giocando a fare le "conquistatrici seriali". In quel bistrot, lo stesso di Nicola, Irene si siede e attende. Attende quell'uomo che la guarda e ci prova ammiccando; l'altro - che nonostante la presenza della fidanzata - le detta il numero di cellulare; oppure il Valerio Valente della situazione, uomo scialbo, più giovane, impacciato, che alla fine è come tutti gli altri. E Irene ci sta, vuole provare a conoscere meglio se stessa, a comprendere se è una donna da "una storia leggera tanto per divertirsi e via". Ma quella sensazione di aver fatto una cosa che non le appartiene si fa strada in lei il mattino successivo, quando si sveglia accanto a un uomo che conosce a malapena e verso cui non prova assolutamente nulla.
Il bistrot la salverà, quel luogo la salva sempre. Ed è forse lì che il destino l'attende, con il volto di un uomo riflessivo, seduto al tavolo dove solitamente siede lei. Non alza subito lo sguardo, ma appena lo fa, accade qualcosa di diverso. E' allora che un'esistenza di possibilità si apre nuovamente, in un finale ancora da scrivere.


Il filo rosso del destino esiste, lo so anche io per certo da un po' di tempo. Prima non ci credevo. A volte unisce le persone apparentemente più sbagliate, o quelle che non potrebbero avere la minima probabilità di incontrarsi, se solo tutto scorresse in maniera monotona. Ma c'è sempre quel "quid", che non sappiamo definire, a mescolare le carte e le vite. 
Se Irene e Nicola si fossero incontrati molto prima, forse l'esistenza di entrambi sarebbe stata felice sin dal principio. Le cose, invece, sono andate diversamente: due matrimoni falliti alle spalle, sofferenze, incertezze, anche se indubbiamente ci saranno state parentesi di "accettabilità". Ma non è su quest'ultima che si fonda un legame.
Come si suol dire, Irene e Nicola erano forse le persone giuste al momento sbagliato; solo quando quell'istante è mutato, allora il destino le ha fatte incontrare... quel destino che era dietro l'angolo e attendeva paziente, quello stesso destino che, a volte, assume semplicemente fattezze umane. Bisogna solo saperlo riconoscere.

Un libro di 88 pagine carico di riflessioni, un libro che non mi pento di aver acquistato sull'onda dell'emozione. Grazie all'autore per aver condiviso tutto ciò con noi lettori.


"Vogliamo che la persona che amiamo ci dica d’essersi innamorata di noi perché un giorno, senza neanche pensarci, l’abbiamo toccata in un punto in cui non sapeva di essere sensibile, come certe carezze che arrivano molto in fondo per conto loro."

"E il peggio che ti può capitare, quando ti abitui a vivere in un mondo ridotto a una persona soltanto, è di pensare di avere abbastanza mondo per essere felice, addirittura diventarlo, e così raccontarti che nel resto del mondo, tutto quell'altro mondo che non è lei, non vuoi neanche più andarci; infatti non ci vai, e dopo un po' ti senti persino fiero di aver smesso di frequentarlo, quel mondo così vasto, anche se poi quando viene a girare dalle tue parti o lo vedi dalla finestra ti sale un po' di magone, e te ne torni dentro mordendoti le labbra."

"C'innamoriamo di minuzie, di riflessi in cui vediamo l'altra persona come pensiamo che nessuno l'abbia vista e mai la potrà vedere, e custodiamo questi attimi di unicità in forma d'immagine, anche se negli anni sbiadisce; ma è a quell'immagine che chiediamo aiuto quando il nostro sentimento vacilla e dubitiamo di amare, allora la richiamiamo, e ci basta (quando ancora l'immagine è viva) ritrovare quel modo di bere a canna, tenendo la bottiglia distante dalle labbra, perché l'amore torni a insinuarsi e si riaccenda, rimettendo a posto le cose, disponendole intorno a noi nell'ordine rassicurante in cui ci siamo abituati a vivere, e ci lasci dove siamo, reprimendo di schianto i progetti di fuga a cui avevamo già cominciato a lavorare".


venerdì 31 gennaio 2020

Recensione di "Come fermare il tempo" di Matt Haig

Buon pomeriggio a tutti, cari lettori! Come state? Quale libro avete sul comodino in questo periodo?
Personalmente, dopo aver usato la mia gift card Mondadori, ho una pila di libri... e ogni volta che entro in qualche libreria, devo comunque trattenermi dallo spendere minimo quei 10 euro per tornare poi a casa con una busta e una storia da leggere. Ma come dico sempre, i soldi dedicati ai libri sono ben spesi!
Ultimamente ho letto la storia di Tom, racchiusa in un romanzo dalla copertina azzurra, con una clessidra contenente una rosa rossa - che mi ha sempre fatto pensare alla maledizione della Bestia - la sagoma di un uomo seduto sulla sabbia in posa riflessiva e il suo cane accucciato al fianco.
Un micromondo racchiuso all'interno del simbolo del tempo che, inesorabilmente, trascorre.


Trama: Pensate a un uomo che dimostra quarant’anni, ma che in realtà ne ha più di quattrocento. Un uomo che insegna storia nella Londra dei giorni nostri, ma che in realtà ha già vissuto decine di vite in luoghi e tempi diversi. Tom ha una sindrome rara per cui invecchia molto lentamente. Ciò potrebbe sembrare una fortuna… ma è una maledizione. Cosa succederebbe infatti se le persone che amate invecchiassero normalmente mentre voi rimanete sempre gli stessi? Sareste costretti a perdere i vostri affetti, a nascondervi e cambiare continuamente identità per cercare il vostro posto nel mondo e sfuggire ai pericoli che la vostra condizione comporta. Così Tom, portandosi dietro questo oscuro segreto, attraversa i secoli dall’Inghilterra elisabettiana alla Parigi dell’età del jazz, da New York ai mari del Sud, vivendo tante vite ma sognandone una normale. Oggi Tom ha una buona copertura: insegna ai ragazzi di una scuola, raccontando di guerre e cacce alle streghe e fingendo di non averle vissute in prima persona. Tom deve a ogni costo difendere l’equilibrio che si è faticosamente costruito. E sa che c’è una cosa che non deve assolutamente fare: innamorarsi.
Come fermare il tempo è una storia folle e dolceamara su come perdere e poi ritrovare se stessi, sull’inevitabilità del cambiamento e sul lungo tempo necessario per imparare a vivere. Una storia bellissima in cui riconoscersi, per piangere su tutto ciò che perdiamo e per rallegrarci delle meraviglie della vita.


Da sempre, l'uomo ha cercato un modo per non invecchiare, per rimandare al più tardi possibile l'epoca dei capelli bianchi, delle rughe, della debolezza, delle malattie e, infine, della morte. Tom, a volte, vorrebbe invece provare l'ebrezza di vedere qualche segno di anzianità sul suo viso, vorrebbe in casi estremi farla finita... Tom ha più di 400 anni. Soffre di una sindrome definita "anageria", che lo fa invecchiare molto lentamente. Ha vissuto l'epoca della caccia alle streghe e della superstizione, quella di Shakespeare, del capitano Cook, le guerre mondiali, fino a giungere al XXI secolo in cui ha deciso di fare l'insegnante a Londra per un po' di tempo, finché non desterà troppi sospetti e sarà costretto a cambiare di nuovo paese e identità.


La sua intera esistenza è andata avanti così, impregnata di dolore, una fuga continua dalla normalità che lo accusava di essere diverso e, perciò, di costituire una minaccia. 
Eppure, in passato, Tom ha conosciuto l'amore, Rose... una donna semplice e dolce che non ha mai dimenticato, una donna che ha visto invecchiare al suo fianco mentre lui manteneva l'aspetto di un ragazzo e dalla quale ha avuto una figlia, Marion, perduta quando è stato costretto a fuggire per non mettere nessuno in pericolo.


Correvano gli anni 1665-1666 e a Londra la peste mieteva vittime. Rose fu una di queste. Da allora, Tom ha iniziato ad essere il fantasma di se stesso: vagando per innumerevoli paesi, viaggiando in lungo e in largo, inventandosi lavori e identità, portando nel suo cuore una parte di sé, sua figlia, che aveva ereditato l'anageria, e il sogno di ritrovarla.
Tom e Marion non sono però gli unici nella loro particolarità. Esiste una società, quella degli Albatros, capitanata da un tale Hendrich, che apparentemente ha lo scopo di riunire tutti gli uomini e le donne con questa mutazione per proteggerli da eventuali esperimenti scientifici. La verità, invece, è ben altra... E una delle regole principali è non innamorarsi delle effimere, ovvero dei normali essere umani. Ma cos'è una lunga vita senza l'amore?


Tra spunti di riflessione e un velo di malinconia che impregna le pagine del libro, gli occhi di Tom - che riescono a guardare la stratificazione del tempo - conducono il lettore ad osservare una realtà composta di piccoli istanti, di un passato, un presente e un futuro che, talvolta, si fondono tra loro.
L'anageria è un dono forse, mentre per lui costituisce ormai una condanna, un'eterna solitudine, che lo ha costretto a chiudersi all'interno di una gabbia di paure, con la sola piccola speranza di ritrovare la figlia. Eppure, infine, vivere un'esistenza così lunga deve avere un senso. E quel senso, quella motivazione, è proprio l'amore, ciò che Tom aveva evitato per tanti secoli e che, inconsciamente, portava dentro di sé, ciò di cui aveva bisogno... proprio come ogni essere umano.


"Come fermare il tempo" riprende una tematica che, come dicevo in principio, ha affascinato numerosi filosofi e, in generale, l'uomo da sempre. Il tempo, lo scorrere continuo di istanti, un passato verso cui non si può tornare, un futuro che non si può conoscere e un presente che, molto spesso, sottovalutiamo senza gustarlo appieno. Non si tratta, perciò, di un argomento nuovo. La bravura di Matt Haig consiste, però, nell'aver costruito un personaggio meraviglioso, mutevole per necessità, ma sensibile, solitario, malinconico, un po' come le note provenenti dal liuto che Tom sapeva suonare così bene, fino a inserirlo ogni volta in un contesto storico approfondito quanto basta per creare scorrevolezza e curiosità.
Un bel romanzo che consiglio assolutamente di leggere, un libro che ormai considero come uno dei miei migliori amici di carta.

«Mi sono innamorato una volta sola in vita mia. Immagino che, in un certo senso, questo faccia di me un romantico. L'idea che noi tutti abbiamo un univo vero amore, e che dopo la sua scomparsa nessun altro possa reggere il confronto. È un'idea dolce, ma la realtà è terrore puro. Dover affrontare innumerevoli anni di solitudine dopo. Esistere quando il senso della propria vita non c'è più. E il senso della mia vita, per un po', è stato Rose».

«Immagino sia questo il prezzo da pagare per l'amore: assorbire il dolore di un'altra persona come se fosse il proprio».

«Posò il liuto sul letto accanto a sé e mi baciò. Chiusi gli occhi, e il resto del mondo svanì. Non esisteva nient'altro. Nient'altro, tranne lei. Lei era le stelle, il firmamento e gli oceani. Non c'era altro che quell'unico frammento di tempo, e quel germoglio d'amore che vi avevamo piantato. E poi, dopo un po' che era iniziato, il bacio terminò, e io le accarezzai i capelli, e le campane della chiesa suonarono in lontananza, e ogni cosa nel mondo fu in ordine».


«Ci baciammo. Chiusi gli occhi e aspirai l'odore della lavanda e quello di Rose. Mi sentivo così terrorizzato e innamorato da rendermi conto che quei due sentimenti (il terrore, l'amore) in realtà erano una cosa sola».

«È strano quanto sia vicino il passato, anche quando lo credi lontanissimo. Strano come sia capace di balzare fuori da una frase e aggredirti. Strano come ogni oggetto, ogni parola possa ospitare un fantasma. Il passato non è un luogo a parte. È molti, molti luoghi, sempre pronti a risorgere nel presente».

«Spesso la vita va così. Aspetti qualcosa per tanto, tanto tempo: una persona, un sentimento, un'informazione, e alla fine, quando te la trovi davanti, non riesci quasi a rendertene conto. Il buco è così abituato a essere tale che non è più capace di richiudersi».

«Le persone che ami non muoiono mai».


lunedì 16 dicembre 2019

Recensione di "Mantieni il bacio. Lezioni brevi sull'amore" di Massimo Recalcati

Scrivo in notturna, mentre noto che sui vetri si forma la condensa. E' freddo fuori, siamo ormai a dicembre, le luci inondano le strade del centro di Roma, ma come sempre il Natale si sente meno. Eppure dovrebbe essere una festività calda, felice, con un pizzico di dolcezza, mi ripeto. Ma io sono la prima a non avvertire nulla di tutto ciò. Anche per il Natale, forse, esiste un tempo per viverlo appieno. Non basta il giorno in sé, ma occorrono vari elementi e bisogna far sì di possederli tutti per tornare a pensare che si tratti di un periodo magico.

Passeggiando, dunque, per Roma, qualche giorno fa, sono entrata in libreria. C'era gente che iniziava a radunarsi per la presentazione di un libro. A me invece interessava solo un po' di silenzio e l'odore di carta. Cercavo ispirazione nelle copertine nuove, nelle immagini che si susseguivano evocative finché, non trovando nulla che facesse al caso mio, mi venne alla mente una lettura, "Mantieni il bacio. Lezioni brevi sull'amore" di Massimo Recalcati. Ricordavo perfettamente la foto di un uomo e una donna d'altri tempi che si tenevano per mano, guardandosi negli occhi, seduti nel vagone di un treno.
Nonostante non sia proprio nel mio miglior momento romantico, ho deciso di acquistarlo e leggerlo per cercare spiegazioni, più che risposte. Queste ultime può averle solo il singolo a seconda della propria esperienza.


Trama: Perché “ancora” è la parola dell’amore. Chi ha detto che l’empatia sia necessaria per fondare una buona relazione? Che l’amore sia anzitutto dialogo? E se quelle del “dialogo” e dell’“empatia” fossero delle parole d’ordine finalizzate proprio a scongiurare l’alterità dell’Altro, la sua radicale e irriducibile differenza, il suo essere straniero? Se la condizione di ogni amore non fosse dialogo ma l’incontro con un segreto indecifrabile, con un mistero che resiste a ogni sforzo empatico? Lacan affermava che il rapporto sessuale è impossibile, è sempre fallito. Non posso mai sentire quello che l’altro sente, confondermi, coincidere, essere lui. Ma è proprio dall’esperienza di questo fallimento che diviene possibile l’amore come amore per l’eteros. Si tratta di provare a condividere proprio l’impossibilità di condividere il rapporto. Se ti amo non è perché dialogo con te ma perché in te c’è qualcosa di te e di me che mi sfugge, impossibile da raggiungere. Scopro, cioè, in te un segreto che mi supera e si distanzia da ogni empatia possibile. Per questo Lacan identificava l’amore con la donna, se la donna è – come è – il nome più radicale del segreto impossibile da decifrare. In una ricerca intima e profonda, Massimo Recalcati indaga il miracolo dell’amore, il sentimento più misterioso di tutti. “La fedeltà non è una prigione, né una gabbia,” spiega, “se si trasforma in un sacrificio bisogna liberarsi. La fedeltà diventa una postura dell’amore perché trasforma lo stesso in nuovo, non c’è bisogno di andare altrove per trovarlo. Come quando guardiamo un’alba sorgere: l’abbiamo vista mille volte ma non ci stancheremmo mai di ammirarla, ogni volta ci appare diversa, nuova.”

Ricordo che Erri de Luca, nel suo libro "I pesci non chiudono gli occhi", scrisse riguardo la bellezza del verbo "mantenere". E qui Recalcati "Mantiene il bacio". Come si può mantenere un gesto tanto dolce, passionale, intimo come il bacio? Come si riesce a mantenere il legame che si crea tra due anime tramite il contatto dei corpi, delle bocche, delle lingue?

«Il bacio è forse l'immagine che, più di ogni altra, condensa la bellezza e la poesia dell'amore. [...] Se non c'è amore senza dichiarazione, non c'è amore senza bacio».


Mi tornano in mente anche i tempi andati, quando ero solo una studentessa delle scuole medie e il nostro professore di religione (eh sì) ci parlò della differenza tra tanti tipi di amore. Ci chiese "Ragazzi, quale dei due è il vero amore: quello dei genitori verso un figlio, o quello di una donna verso un uomo?".
Non ci pensai su due volte. Avevo le idee precise tanti anni fa, forse perché ero giovane e ancora non avevo incontrato chi davvero mi avrebbe far potuto battere il cuore, per poi puntualmente spezzarmelo. 
Risposi io: "Quello di una donna verso un uomo".
Il professore sorrise e mi chiese perché. Ero timida, già era un passo avanti l'aver alzato la mano per rispondere, dato che tendevo a confondermi con l'ambiente circostante. 
Proseguì lui: "L'amore di una madre per un figlio si chiama affetto; quello di una donna per un uomo è un amore intenso, diverso".
Ovviamente non andò oltre. Forse ai tempi d'oggi avrebbe persino iniziato una lezione di educazione sessuale, ma all'epoca no, ancora si tendeva a rimanere piuttosto neutrali in merito a certi discorsi.
E' proprio qui, però, che si inseriscono le riflessioni di Massimo Recalcati. Il bacio è l'inizio di tutto quel che si può chiamare amore nel vero senso della parola. Ogni bacio è una silenziosa dichiarazione d'amore, un "ti amo" scaturito dal cuore. Ed è il bacio d'amore quello che si ricorda chiudendo gli occhi, rivivendo ogni singola sensazione, ogni istante trascorso a intrecciare il proprio essere con l'altra persona, a respirare il respiro dell'altro.


Il bacio non unifica. Mantiene, infatti, due corpi separati, due entità distinte che trovano, in quel momento così intimo, un'intesa. E' proprio questo, però, la premessa per un amore probabilmente duraturo. Solo ed esclusivamente questa. 
L'amore non deve essere possessivo, altrimenti sfocia nella violenza; l'amore non deve annullare l'altro, ma lasciare all'altro la propria individualità e libertà; l'amore non deve riversarsi solo ed esclusivamente sui figli, ma deve proseguire ad essere provato per il partner, mentre si sarà consapevoli del legame filiare che, un giorno, si spezzerà, regalando indipendenza; l'amore è desiderio, brucia, ustiona e dura a lungo... ma forse non è per sempre, come tutti vorrebbero farci credere a cominciare dalle promesse matrimoniali; l'amore è anche separazione, laddove è meglio non farsi più del male e proseguire la propria vita singolarmente.


Non si possono tenere lezioni sull'amore. Questa è la premessa di Massimo Recalcati, ma ci si può solo limitare a riflettere, a cercare di capirne i meccanismi che hanno comunque e sempre una logica diversa a seconda della persona. L'amore è soggettivo e, proprio per questo, sempre differente. L'amore prima o poi capita a tutti ed è bello viverlo, che duri o meno. Forse siamo fatti per amare e l'amore «ci salva ogni volta dalla ferita del mondo».

«Mantengo il bacio nel buio della notte e nella luce del giorno. Lo mantengo nel tempo che passa. Lo mantengo nel furore acceso del mondo, nella sua ferocia. Gli amanti scavano il loro nascondiglio, la loro pace nella guerra, nell'infinito dolore dell'essere. Quando si baciano spengono il rumore del mondo, infrangono la sua legge, sequestrano il tempo dal suo movimento ordinario. Cadono insieme nelle loro lingue distinte e abbracciate».

giovedì 14 novembre 2019

Recensione di "I pesci non chiudono gli occhi" di Erri De Luca

Buongiorno a tutti, lettori! Come state? In un attimo di pausa, voglio portarvi verso Napoli e la sua spiaggia, di preciso nel periodo dell'immediato dopoguerra, dove un bambino di 10 anni era in vacanza con la sua famiglia, in un caldo settembre italiano.


Trama: A dieci anni l'età si scrive per la prima volta con due cifre. È un salto in alto, in lungo e in largo, ma il corpo resta scarso di statura mentre la testa si precipita avanti. D'estate si concentra una fretta di crescere. Un uomo, cinquant'anni dopo, torna coi pensieri su una spiaggia dove gli accadde il necessario e pure l'abbondante. Le sue mani di allora, capaci di nuoto e non di difesa, imparano lo stupore del verbo mantenere, che è tenere per mano.


Perché quella ragazzina non gioca come gli altri, ma legge libri gialli? Il piccolo autore è fermo sulla spiaggia, cerca di completare la settimana enigmistica, eppure ogni tanto tira su lo sguardo e incrocia quello di una bambina che, altrettanto curiosa, ricambia.
Quell'estate è diversa per Erri che, compiuti 10 anni, si sente inadatto in un corpo che non lo rappresenta: anima e "involucro" non vanno d'accordo perché non crescono di pari passo. Mentre questo conflitto intimo è in atto, per la prima volta in vita sua, assapora qualcosa di nuovo, un sentimento. Mai prima di allora aveva potuto tollerare il verbo "amare" che è sempre presente tra le pagine dei romanzi, eppure adesso quello stesso verbo inizia ad assumere contorni che, seppur sfocati, gli danno consistenza, materializzandosi in quella ragazzina così diversa da tutti gli altri.


Tra un ghiacciolo e una chiacchierata sul comportamento degli animali, che la ragazzina adora osservare e studiare, i due bambini scopriranno cosa significa "mantenere", che comporta la promessa di "tenere per mano".
L'amore, però, fa conoscere anche il dolore. Per amore bisogna lottare. Ed è questo che quel ragazzino di 10 anni comprende quando gli altri bambini della spiaggia, invidiosi del suo rapporto con la ragazzina, lo prendono di mira, fino a pestarlo. Lui non è capace di reagire, né di fare del male, lui è bravo a nuotare, a fondersi con l'acqua, ma non ad usare violenza. La ragazzina, che non è come tutti gli altri, sceglie comunque lui. A lei non interessano gli stupidi.
Con una dolcezza stravolgente, accadrà anche il primo bacio, ad occhi aperti per il giovane Erri, come i pesci che non chiudono gli occhi.


L'episodio di un'estate è intervallato da ricordi di un'infanzia a tratti dolorosa, di un padre ormai assente, partito per l'America per cercare lavoro, e della madre, rimasta con Erri e la sorella che decide di rimanere a Napoli senza raggiungere il marito; un'infanzia che parla di mare, di pesca all'alba, di reti e di ami; e poi crescendo, ormai adulto, del lavoro in fabbrica.


Una trama semplice, composta di ricordi di una vita, eppure è lo stile di Erri De Luca ad essere particolarmente evocativo, direi poetico e delicato. Sfogliando le pagine si ode il suono del mare e dell'infrangersi tranquillo delle onde sugli scogli, della chiglia delle barche che atterra ritimicamente sulla superficie dell'acqua, il chiacchiericcio dei bagnanti, si avvertono i granelli di sabbia sotto i piedi, l'odore di salsedine e quello stampato della settimana enigmistica; ma anche le tenere carezze di una madre, una sordida nostalgia per il padre, le mani ruvide, callose e gentili del pescatore, il sapore di qualcosa di nuovo, come può essere il primo bacio di ognuno di noi. E infine, la malinconia per una vita che avrebbe potuto essere e non è stata... un'esistenza al fianco della ragazzina.

Non conoscevo Erri De Luca, pur avendone sentito parlare. Era tra gli autori che avrei voluto scoprire, i suoi libri tra quelli in lista, ma non avevo ancora sfogliato nulla realmente.

Vi lascio con qualche frase, anche se è difficile scegliere i pensieri più belli.

«Il volersi bene si costruisce. Ma l’amore quello vero, no. L’amore lo senti immediato, non ha tempo. È dire "ti sento". Un contatto di pelle, un abbraccio, un bacio. Mantenersi, il mio verbo preferito, tenersi per mano. Ti può bastare per la vita intera, un attimo, un incontro. Rinunciarvi è folle, sempre e comunque.»


«Quell’amore pulcino conteneva tutti gli addii seguenti. Nessuna si sarebbe fermata, non avrei conosciuto le nozze, niente fianco a fianco davanti a un terzo che domanda: “Vuoi tu?”. L’amore sarebbe stato una fermata breve tra gli isolamenti. Oggi penso a un tempo finale in comune con una donna, con la quale coincidere come fanno le rime, in fine di parola.»


«I baci spingevano dai talloni puntati nella sabbia. Risalivano le vertebre fino alle ossa del cranio, fino ai denti. Ancora oggi so che sono il più alto traguardo raggiunto dai corpi. Da lassù, dalla cima dei baci si può scendere poi nelle mosse convulse dell’amore.»


«Si amavano quei due, si regalavano libri.»




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