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lunedì 25 agosto 2025

Recensione di "Il quaderno dell'amore perduto" di Valérie Perrin

Buongiorno amici, e bentornati sul mio blog in questa coda di fine estate! Sto finalmente leggendo tantissimo e mi rendo conto che dovrei dedicare sia alla lettura, sia alle altre mie passioni più tempo. Invece, molto spesso, si sacrificano i propri hobby per il lavoro quando c'è, o per cercarlo. Una migliore divisione della giornata potrebbe effettivamente giovare.

Arriviamo al dunque. Il romanzo di cui posterò la recensione è "Il quaderno dell'amore perduto" di Valérie Perrin.


Trama: La vita di Justine è un libro le cui pagine sono l’una uguale all’altra. Segnata dalla morte dei genitori, ha scelto di vivere a Milly – un paesino di cinquecento anime nel cuore della Francia – e di rifugiarsi in un lavoro sicuro come assistente in una casa di riposo. Ed è proprio lì, alle Ortensie, che Justine conosce Hélène. Arrivata al capitolo conclusivo di un’esistenza affrontata con passione e coraggio, Hélène racconta a Justine la storia del suo grande amore, un amore spezzato dalla furia della guerra e nutrito dalla forza della speranza. Per Justine, salvare quei ricordi – quell’amore – dalle nebbie del tempo diventa quasi una missione. Così compra un quaderno azzurro in cui riporta ogni parola di Hélène e, mentre le pagine si riempiono del passato, Justine inizia a guardare al presente con occhi diversi. Forse il tempo di ascoltare i racconti degli altri è finito, ed è ora di sperimentare l’amore sulla propria pelle. Ma troverà il coraggio d’impugnare la penna per scrivere il proprio destino?

Ho letto altri due romanzi di Valérie Perrin: il celebre “Cambiare l’acqua ai fiori” e “Tatà”.
E avendo letto ora “Il quaderno dell’amore perduto”, ovvero il romanzo d’esordio, trovo che le tematiche toccate nel primo si sono sviluppate in maniera più estesa sia in “Cambiare l’acqua ai fiori”, in cui tutto ruota intorno a un tragico incidente e a una morte mai dimenticata, sia in “”Tatà” dove i legami famigliari sono tutto, ma vi sono anche ricordi e gli esiti della Seconda Guerra Mondiale.

[ATTENZIONE: SPOILER!]

La protagonista di “Il quaderno dell’amore perduto” si chiama Justine, ha poco più di 20 anni, è orfana e lavora presso una casa di riposo, “Le Ortensie”. La ragazza vive con i nonni paterni, che l’hanno cresciuta, e suo cugino, Jules, anch’egli orfano. I padri di Justine e Jules erano gemelli ed entrambi, con le rispettive mogli, sono morti in un tragico incidente d’auto. Questo segnerà la vita sia di Justine, sia di Jules che hanno ricevuto attenzioni, ma non quell’amore genitoriale. Justine, soprattutto, avverte in maniera molto intensa questa assenza, che si riflette nel suo comportamento: di giorno accudisce amorevolmente gli anziani della casa di riposo, mentre di sera affoga i suoi vuoti nell’alcool, andando a ballare in discoteca e finendo a letto con ragazzi di cui non ricorda nemmeno il nome. Si percepisce la volontà di non volersi legare, la paura di essere amata.


Detto ciò, intorno alla morte dei genitori di Justine e Jules aleggia un mistero. Solo dopo anni, infatti, la polizia riprende in mano il fascicolo e riapre le indagini. Justine lo viene a sapere per caso, ma non lascerà cadere lì la questione. Andrà a fondo, rivelando una trama familiare complessa da cui nessuno è esente, nemmeno gli insospettabili nonni.

Ma a cosa si riferisce “Il quaderno dell’amore perduto”? Non alla storia della famiglia di Justine, bensì a quella di un’ospite delle “Ortensie”, Hélène Hel, di cui la ragazza si prende cura quotidianamente e con la quale chiacchiera. L’anziana Hélène ha raccontato la propria vita a Justine, in maniera frammentaria, proprio come farebbe una persona vittima di demenza senile. Lei si trova in quella casa di riposo, ma nella sua mente è seduta in spiaggia, in riva al mare, ad aspettare il suo Lucien, l’uomo che l’ha resa libera insegnandole a leggere (Hélène era dislessica e Lucien le insegnò a leggere, per una serie di vicissitudini, in braille) e ad amare. Lo stesso Lucien che, deportato dai nazisti per aver nascosto un ebreo, tornerà anni più tardi, quando ormai era stato dato per morto. In tutta la storia, vi è sempre un gabbiano che, come un angelo, veglia sull’esistenza di Hélène e Lucien.
 
Foto di Pexels da Pixabay

Justine appunta su un quaderno azzurro tutta la storia di Hélène e sarà proprio lei a leggerla all’anziana signora quando, per via dell’età e di una caduta, sarà ricoverata in ospedale entrando in coma, negli ultimi giorni della sua lunga esistenza.

Valérie Perrin, quindi, anche in questo romanzo punta molto sulla famiglia che, nonostante appaia come un porto sicuro e inattaccabile, talvolta nasconde aspetti molto oscuri; sull’amore incondizionato, un sentimento che forse al giorno d’oggi non c’è più, o è rarissimo da incontrare; sulla morte, come punto di fine, ma anche di inizio per le “indagini” di chi è rimasto. Non so perché questa autrice, infatti, sia così legata ai cimiteri che compaiono in ogni suo romanzo, giocando un ruolo certamente non secondario.

In questo periodo di pausa, l’ho letteralmente divorato terminandolo in soli due giorni (mentre a Roma, tra una cosa e l’altra, sarebbe andato avanti un mese).

Vi aspetto alla prossima recensione e vi lascio con un piccolo estratto. A presto!

«È come se il mio viso non avesse ancora scelto, come se non avesse ancora finito di disegnarsi. Mi ripeto che ciò che non trovo attraente in me un giorno piacerà a qualcuno. A qualcuno che mi amerà e che diventerà il mio pittore. Sarà lui a continuare il disegno. A trasformare lo schizzo in un capolavoro grazie a una grande storia d’amore. Ciascuno di noi è il Michelangelo di qualcun altro. Il problema è che bisogna trovarsi».

lunedì 5 maggio 2025

Recensione di "La sconosciuta del ritratto" di Camille de Peretti

Buonasera a tutti amici e bentornati tra le pagine virtuali del blog!

Oggi vi porto a conoscere la storia del "Ritratto di signora" di Gustav Klimt, o meglio, di quella che Camille de Peretti ha creato attorno a questo straordinario dipinto.


Trama: “La tela vibrava di bellezza. Persa nell’occhio celeste picchiettato di verde, a Pearl mancava il respiro. Era davvero la sosia di quella donna?”.
Dipinto a Vienna nel 1910, il quadro di Gustav Klimt Ritratto di signora viene comprato da un anonimo collezionista nel 1916, rimaneggiato dal maestro un anno dopo e rubato nel 1997, per poi riapparire nel 2019 nel giardino di un museo italiano d’arte moderna. Nessuno ha potuto stabilire con assoluta certezza chi fosse la giovane donna raffigurata sulla tela né quali misteri avvolgano la movimentata storia del suo ritratto. Dalle strade di Viena del primo Novecento al Texas degli anni Ottanta, dalla Manhattan della Grande Depressione all’Italia contemporanea, Camille de Peretti immagina il destino della donna e dei suoi discendenti. Un affresco magistrale in cui si mischiano segreti di famiglia, clamorosi successi, amori contrastati, scomparse e drammi a fosche tinte.

Cosa ha attratto la mia attenzione secondo voi quando, entrando in libreria, ho notato questo volume? Esattamente: il dipinto che appariva in copertina era quello che, rubato dalla Galleria Ricci Oddi, era riapparso nel 2019, ritrovato dal giardiniere avvolto in un sacco della spazzatura e inserito all'interno di un alveo nel muro perimetrale dello stesso polo museale. Una storia che ha dell'incredibile, ma tant'è: il dipinto era forse rimasto sempre alla Galleria, ma nessuno sapeva dove fosse.
Il ritratto, però, nasconde anche un'altra particolarità: fu ridipinto poiché, precedentemente, appariva diverso. La donna, infatti, era abbigliata con un abito nero, un serpente di piume e un cappello a larga falda, apparendo come una prostituta. In seguito, Klimt effettuò una modifica (scoperta da Claudia Maga, all'epoca studentessa liceale): lo ridipinse, donando alla donna uno scialle colorato, che le conferiva un aspetto "fiorito", togliendo sia le piume che il cappello.


Ecco che, già di per sé, la storia del quadro di Klimt si prospetta come un romanzo. Camille de Peretti ha, però, deciso di costruire una trama attorno a questi elementi. La ragazza del quadro si chiama, perciò, Martha. E' povera, giovanissima e, durante i primi anni del Novecento, viene assunta dai ricchi Brombeere al servizio del figlio Franz, con l'intento di togliergli il vizio di frequentare le prostitute. Franz si innamora di Martha, ma una spiacevole vicenda farà sì che la ragazza debba essere allontanata dalla famiglia, tornando a vagare per Vienna nella totale povertà, con un figlio a carico, Isidore.

Vienna (foto di andreas N da Pixabay)

Quello stesso Isidore che, dopo una vita fatta di anni trascorsi in orfanotrofio, fughe, lavoretti rimediati, farà improvvisamente fortuna, proprio durante il crollo della borsa di Wall Street, e sposerà la figlia del proprietario della fabbrica di dentifrici, diventando uno degli uomini più ricchi d'America.
Sarà ancora Isidore ad accorgersi che la donna di quel dipinto conservato presso la Galleria Ricci Oddi di Piacenza somiglia incredibilmente a Pearl, la figlia avuta fuori dal matrimonio... quella stessa figlia che ha il medesimo sguardo dolce di sua madre, morta di spagnola quando era solo un bambino.

Camille de Peretti riesce ad elaborare una storia degna di nota partendo solo da un dipinto, attorno al quale aleggia ancora un'aura di mistero. Il finale, che giunge ai nostri giorni quando il dipinto viene ritrovato, non è troppo convincente ed l'unica nota stonata in un romanzo che mi ha appassionata.
Eppure, i quesiti rimangono: Gustav Klimt a chi si ispirò realizzando il "Ritratto di signora"? Chi fu la "Martha" della vita reale e perché l'artista pensò di modificare il dipinto?
Nel consigliarvi la lettura di questo libro, vi saluto con qualche citazione e vi aspetto alla prossima recensione!

«È facile ricordare le prime volte della vita, mentre le ultime hanno la terribile caratteristica di non annunciarsi».

«Nel mondo dell'arte esistono varie specie e sottospecie di ladri. Dal semplice conoscitore alle potenti mafie, dal mercante al trafficante, il passo è spesso breve. Poi ci sono gli affabulatori, i bugiardi e i rigattieri occasionali che imbrogliano le anziane facendo credere loro che il ritratto del nonno non valga il chiodoa cui è appeso. Molti gentili, liberano la signora di quella faccia allungata con gli occhi a mandorla neanche tanto simmetrici e se ne vanno fischiettando portandosi dietro il Modigliani. Ci sono gli antiquari, che hanno il bel negozio sulla strada e trafficano nel retrobottega. Ci sono i corsari, gli avventurieri, i cercatori di tesori, i saccheggiatori di tombe. Ci sono i falsari, gli artisti, gli appassionati».

domenica 9 marzo 2025

Recensione di "Tatà" di Valérie Perrin

Buonasera a tutti e bentornati sulle pagine del mio "piccolo" blog letterario.

Sono stata forse assente per un po' di tempo, ma vi assicuro che stavo leggendo! "Cosa?", vi chiederete. Ed è questo il motivo del nuovo post. L'ultimo romanzo che ho divorato è stato "Tatà" di Valérie Perrin, autrice nota per "Cambiare l'acqua ai fiori".


Trama: Agnès non crede alle sue orecchie quando viene a sapere del decesso della zia. Non è possibile, la zia Colette è morta tre anni prima, riposa al cimitero di Gueugnon, c’è il suo nome sulla lapide... In quanto parente più prossima tocca ad Agnès andare a riconoscere il cadavere, e non c’è dubbio, si tratta proprio della zia Colette. Ma allora chi c’è nella sua tomba? E perché per tre anni Colette ha fatto credere a tutti di essere morta? È l’inizio di un’indagine a ritroso nel tempo. Grazie a vecchi amici, testimonianze inaspettate e una misteriosa valigia piena di audiocassette, Agnès ricostruisce la storia di una famiglia, la sua, in cui il destino dei componenti è legato in maniera indissolubile a un circo degli orrori, all’unica sopravvissuta di una famiglia ebrea deportata e sterminata dai nazisti, alle vicende di un celebre pianista e a quelle di un assassino senza scrupoli, alle subdole manovre di un insospettabile pedofilo e al tifo sfegatato per la locale squadra di calcio, il FC Gueugnon. Sulla scia di Cambiare l’acqua ai fiori e Tre, Valérie Perrin ci trascina in un intreccio di storie, personaggi e colpi di scena raccontati nel suo stile fatto di ironia, delicatezza e profondità.


Ho letto molte recensioni prima di iniziare la mia lettura: un libro complicato; una narrazione piena di cimiteri (ormai la Perrin è in fissa); troppi personaggi; ho lasciato il libro alle prime pagine. C'era poi, invece, chi in pochi giorni lo aveva terminato (ammirevoli con le oltre 500 pagine!) e già lo amava.

Rientro nella seconda categoria dei recensori. Il nuovo romanzo di Valérie Perrin è piaciuto anche a me. Sarebbe una bugia dirvi che ha una trama semplice e lineare. Affatto! Ci sono molti personaggi, tutti collegati in qualche modo tra loro, e ogni azione sembra avere un significato sin dal principio, come se ci fosse un disegno che conduce esattamente dove dovrebbe.

Agnès torna a Gueugnon per la morte della zia (tatà, in francese) Colette, anzi, per la sua seconda dipartita. Esattamente: Colette è morta per ben due volte, ma solo la seconda è quella vera. Perché fingere allora? Agnès non se lo spiega e rimane anche piuttosto sconvolta scoprendo tassello dopo tassello la vita di quella zia che, da sempre, aveva inquadrato come una persona molto tranquilla, talvolta scialba, dedita solo al calcio e al suo lavoro da ciabattina.

C'è una scatola rosa che contiene tante foto, una camera da letto che, d'un tratto, è cambiata così tanto e Agnès non si spiega il perché; e poi ci sono le audiocassette. Colette rivive in quegli audio diretti proprio ad Agnès, a quella nipote che, un giorno, avrebbe scoperto una realtà disarmante. Insieme a lei, nelle registrazioni, c'è Blanche, la migliore amica della zia... ma allora Colette cosa nascondeva veramente?


Grazie all'aiuto di numerosi personaggi, tra cui i suoi amici di infanzia che ritroverà a Gueugnon dove il tempo sembra essersi fermato, Agnès riuscirà a ricostruire passo dopo passo il suo stesso passato e a capire chi era veramente Colette. Una storia di amore, guerra, violenza celata, laddove non dovrebbe mai esserci, e infine di infinito affetto famigliare.

"Tatà", quindi, si prospetta come una storia composta da tante storie. Non solo quella di Agnès, ma anche quella dei suoi genitori, di Colette appunto, di Blanche e della sua famiglia, di Lyéce e della violenza subita da adolescente. Ci sono gli orrori della guerra, che non sono i soli se si uniscono alla malvagità di un marito e padre possessivo che ha perso, sin da bambino, il proprio lato umano.

Sono tanti gli argomenti trattati, ma sicuramente ne prevalgono due: quello della famiglia (non solo di sangue), come legante, come supporto nelle difficoltà della vita; quello dell'amicizia vera e solida, immancabile, quasi necessaria. E poi nella storia della Perrin, ci sono numerose donne forti che sanno ricominciare nonostante le avversità (e che avversità!): Agnès, che proviene da una triste separazione, dalla seconda morte di Colette e, infine, riceverà rivelazioni scioccanti; Colette, la cui infanzia è stata segnata dal lavoro, dall'affetto per il fratello Blaise e da una madre che non l'ha mai considerata; Blanche, amica di Colette, circense e incatenata a un'esistenza mai desiderata da un padre folle e possessivo; Hannah (madre di Agnès), unica sopravvissuta di un'intera famiglia scomparsa nei campi di concentramento.


Cosa mi è piaciuto? Sicuramente lo "stratagemma" delle audiocassette. Ascoltando la voce, è come se chi ha registrato tanti anni prima tornasse in vita per un momento... è come riavvolgere il tempo con un metodo un po' vintage, ma sicuramente affascinante.

Infine, una mia piccola personale annotazione: ci vuole del talento per scrivere un romanzo così dettagliato, ricco di personaggi e di storie. Non tutti riescono a farlo e non tutti riescono ad apprezzarlo.

Da parte mia è una lettura assolutamente consigliata, soprattutto se vi piacciono le indagini, le vecchie lettere, le foto sbiadite e le audiocassette da ascoltare con il walkman (il mio lo adoravo, con le grandi cuffie!).

Vi saluto con qualche piccolo estratto e vi aspetto alla prossima recensione!

Foto di StockSnap da Pixabay

«Non è che non volevo essere guardata, Agnès, è che non ce la facevo. Te l’ho già detto, volevo mimetizzarmi nell’ambiente, essere trasparente. Una vigliaccata, ma molto pratica. E comunque, malgrado l’aspetto, il mio modo di vestire e l’acconciatura inesistente, lui mi ha visto, Aimé mi ha visto».

«Non sento la voce di Colette da un paio di giorni. Dovremmo tutti registrare noi stessi rivolgendoci a qualcun altro, così, tanto per renderci un po’ eterni».

«[…] ho pensato che è magnifico conservare voci. Ancora più delle immagini. L’immagine si impone, la voce diventa eterna e reinventa un volto, è come se avessimo la stessa voce a tutte le età».

domenica 5 gennaio 2025

Recensione di "Bocca di strega" di Sacha Naspini

Buongiorno amici e buon anno! Chissà quali letture ci faranno compagnia in questo 2025... ho già iniziato 2 libri, complice anche l'influenza che ha deciso di trattenermi a letto per qualche giorno.

Vi porto, però, a conoscere il libro che avevo iniziato un mesetto fa, "Bocca di strega" di Sacha Naspini.


Trama: 1972, Val di Cornia. Bardo è il miglior tombarolo in circolazione. Negli anni è riuscito a costruire un traffico di reperti etruschi che da Populonia viaggiano verso la Capitale, arrivando a stabilire un mercato multimiliardario con l’America. La morte improvvisa della moglie è un duro colpo – Bardo non regge al dolore, sparisce in mare. Ma prima lascia i segreti della ricettazione a Giovanni, il figlio. Che però non ha la stoffa di suo padre. Come se non bastasse, le bande di Tuscia e i trafficanti di Roma vedono in questo momento di debolezza una buona occasione per impossessarsi della piazza...

Bocca di strega apre uno squarcio su un universo che ha fatto la storia di tanti musei, partendo dal basso: la febbre dello scavo, la rivalità tra bande per garantirsi il territorio più fruttuoso, fino alle alte sfere della compravendita mondiale. E poi la provincia d’Italia, abitata da romantici pirati di terra dalla doppia vita: padri di famiglia, operai, artigiani, contadini... Che in pochi anni si sono aggiudicati il dominio del traffico d’arte internazionale. Non senza pagarne le conseguenze.



Di questo libro cosa mi ha ispirato? Il vaso in copertina. Il titolo “Bocca di strega” non mi riportava nulla alla mente, ma sulla copertina ho poi notato che si trattava di una storia di tombaroli e mi sono incuriosita, scoprendo che era uscito da poco tempo.

Siamo negli anni Settanta del Novecento in Val di Cornia (Toscana), periodo di fiorenti scavi clandestini e traffici illeciti di reperti archeologici. Populonia, in particolare, restituisce testimonianze richieste da collezionisti di ogni parte del mondo. Guido Sacchetti – detto Bardo – ha il comando dei tombaroli e del mercato nero: conosce ogni luogo in cui scavare, sa a chi rivolgersi e chi può diventare una persona di fiducia. È il “re incontrastato” del territorio, cui molti devono dei favori, e ha come base la “Conchiglia”, un ristorante che si affaccia sullo splendente Golfo di Baratti.
L’equilibro di questo traffico di reperti, su cui anche le autorità chiudono entrambi gli occhi, viene spezzato brutalmente dalla morte di Elisa, moglie di Bardo. L'evento criminoso sarà fatto passare per un suicidio, ma in realtà è un omicidio, avvenuto in casa dello stesso Guido Sacchetti.
Forse c’è qualcuno della banda che fa il doppio gioco, che ha interessi più grandi e Elisa, che giorni prima aveva ufficialmente denunciato le attività del marito che avevano rovinato la sua esistenza, risultava un soggetto scomodo per i tanti implicati nella rete.
In seguito ad Elisa, anche Guido scompare misteriosamente in mare. Non sarà mai ritrovato il corpo. Tutto passa, quindi, nelle mani del figlio, Giovanni, detto Veleno che appare come la brutta copia del padre, poco incisivo, talvolta contraddittorio. È lo scavo alla Tomba dei Cristalli che si rivela, però, decisivo: si tratta di una “bocca di strega”, che in gergo locale significa "inganno" e si riferisce al ritrovamento, in seguito a una mareggiata, della sepoltura di una donna che in bocca aveva cinque chiodi... donna che, per tale motivo, sarà popolarmente considerata una strega. 
Da questo momento in poi, si aziona una macchina volta a smascherare l’autore dell’omicidio di Elisa. Perché anche il più “cattivo” della situazione non può nulla davanti all’amore e Bardo non riuscirà mai a dimenticare la sua amata e defunta moglie.


Non ho amato particolarmente la storia che sembra più che altro la sceneggiatura di un film, probabilmente anche per la suddivisione che ne è stata fatta. I capitoli, infatti, sono “assegnati” a ogni personaggio e qualcuno di questi ha pure un soprannome – indicato all’inizio del libro – che rende un po’ più confusionario il ritmo narrativo.
Di fatto è una storia fatta di inganni, in cui Guido Sacchetti (Bardo), capo dei tombaroli e “gestore” dei traffici illeciti in materia archeologica, passa quasi come eroe e benefattore, delineando il profilo di un perfetto mafioso. Alla fine questo è: il traffico illecito di reperti archeologici si basa su dinamiche mafiose e, talvolta, gli stessi capi mafia hanno fatto affari e arricchito le rispettive famiglie tramite gli scavi clandestini e il mercato internazionale di opere d’arte (recentemente si è parlato di Matteo Messina Denaro).

Eppure questo libro non mi ha convinta, non mi ha coinvolta più di tanto. A tratti l’ho trovato persino noioso, faticando a terminarlo.
Lo consiglio? Sì, a chi è veramente appassionato della materia perché si tratta, in ogni caso, di letteratura contemporanea a tema (è possibile trovare riferimenti non troppo celati a un celebre museo californiano); non lo consiglio, invece, a chi non è del settore perché potrebbe decidere di abbandonare la lettura già alle prime pagine. 

E ultima annotazione: il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale è il TPC (articolo determinativo maschile singolare, che sottintende "Comando" o "Nucleo" nel caso di una delle ripartizioni territoriali), non “la” TPC. Sono dettagli importanti cui si dovrebbe far caso. 
Di #LaTPC conosco solo la pagina Facebook e il blog che ho fondato e gestisco ormai da anni.

Vi lascio con due piccoli estratti e vi aspetto alla prossima recensione!

«La terra restituisce oggetti che fanno gola in tutta Europa e oltreoceano, darli allo Stato suona come una bestemmia. Gli scantinati dei musei scoppiano di reperti con su scritto un numerino; la ricettazione salva i cristiani. Di più: il tale collezionista protegge i cimeli costruendo teche che tengono conto perfino della temperatura. Neanche per i figli hanno accortezze di quel tipo.»

«Nell’ambiente dei tombaroli di Maremma dire bocca di strega equivale a dire questo: una trappola. Il tranello escogitato da qualcuno per smascherare chi ha cercato di fare il furbo. O chi fa il doppio gioco».


domenica 13 ottobre 2024

Recensione di "Elisir d'amore" di Eric-Emmanuel Schmitt

Buongiorno e buona domenica amici e, come sempre, bentornati! Il traffico di Roma ha queste "qualità": è insopportabile, è troppo e, quindi, favorisce la lettura... perché durante quei 50 minuti/1 ora di mezzi per fare pochi chilometri bisognerà pur fare qualcosa per non impazzire, no? Ed ecco il motivo, direi positivo (almeno), per cui sono di nuovo qui a scrivere.

Ad ogni modo, qualche giorno fa, ho deciso di fare un rapido giro a un mercatino dell'usato che prevede anche una nutrita sezione dedicata ai libri. Vi dirò, mi piange il cuore a vedere tutte quelle storie accatastate, alcune delle quali dimenticate da anni, così come i bellissimi libri storico-artistici o archeologici che giacciono sugli scaffali. Notando un nome noto, ho alla fine deciso di "adottare" un libro (e mi sono dovuta trattenere perché avrei presi almeno una decina).

Il romanzo, che forse è preferibile definire racconto epistolare e di cui vi parlerò, è "Elisir d'amore" di Eric-Emmanuel Schmitt.


Trama: Dopo cinque anni di amore travolgente, Adam e Louise si lasciano. È una separazione dolorosa e straziante che porta Louise a trasferirsi a Montreal, in Canada, mentre Adam rimane a Parigi. Lontani migliaia di chilometri, e separati da un oceano, i due cominciano una corrispondenza volenterosamente improntata all'amicizia in quanto logica e saggia fine di un grande amore. Così si raccontano la nuova vita che stanno facendo, le nuove amicizie e soprattutto i nuovi amori, con quella confidenza intima e speciale che cinque anni di appassionata convivenza hanno conferito loro. Ma il gioco nasconde una trappola. È davvero possibile diventare amici di una persona con cui si è condivisa l'esperienza di un amore profondo, oppure passione e amicizia sono condannati a restare due mondi incompatibili?

Lui è uno psicanalista, lei una giurista presso uno studio internazionale. Sono stati insieme 5 anni, si conoscono perfettamente, si amano, eppure si lasciano. Le cose non funzionano più tra Louise e Adam. Louise si trasferisce persino da Parigi a Montreal, ponendo un oceano tra lei e Adam.
Perché si sono lasciati? Una storia già vista mille volte: mentre stava con Louise, Adam andava a letto con altre donne. Non erano storie importanti, non ne ricordava nemmeno i nomi, ma per una donna non è una pratica tollerabile.
A cosa preferisce ricorrere Adam, pur di non troncare i legami? All'amicizia, ritratto sbiadito e insipido dell'amore, che logicamente Louise non accetta: «L'amicizia dopo l'amore mi umilierebbe. Riconvertire una passione immensa in piccolo monolocale affettuoso non mi tenta, preferisco ritrovarmi direttamente in mezzo alla strada».

Foto di zhi wei yu da Pixabay

Louise e Adam, quindi, iniziano a scriversi, si pongono a vicenda domande e, infine, accade che una collega di Louise, Lily, diventa paziente di Adam, colui che sostiene di avere un "elisir d'amore" innato.
Si nota la gelosia, mascherata da nonchalance perché nell'esistenza di Louise c'è ormai Brice, ma la vita continua e la corrispondenza pure, anzi, non manca un colpo, rivelando il latente desiderio di riprendere il rapporto dove lo avevano lasciato.
Chissà come finirà... Io termino con le parole di Antonello Venditti: "Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano".
Attraverso le lettere (o forse email) di Louise e Adam il lettore si immedesima nelle pene d'amore che tutti (o quasi) viviamo: l'amarezza, la gelosia, la passione bruciante, l'affetto, l'amicizia, la lontananza, a volte (e per chi ci riesce) il perdono. Ed proprio questo, credo, l'obiettivo dello scrittore: tracciare una "psicologia" del sentimento tramite le frasi, a volte stringate, dei due protagonisti.

Vi lascio con qualche frase e vi aspetto alla prossima recensione!


«Oggi, per esempio, ho pensato tutto il giorno alle cose buffe che mi succedevano e che avrei voluto raccontarti, ho desiderato condividere il libro, il film o la musica appena scoperti, ti ho fatto domande, dato risposte, dedicato sorrisi, sospiri, esclamazioni. Insomma, siamo stati sempre insieme. [...] Sei solidamente piazzata dentro di me, più di quanto potrebbe esserlo una semplice anatomia gradevole, sei incisa nella mia immaginazione, nel mio futuro, nei miei ricordi».

«Adam, si può essere padroni di ciò che si pensa, ma mai di ciò che si sente».

«Credo che l'amore sia stato inventato per rendere poetica la vita».

«La bellezza del primo amore viene dal fatto che non è ancora stato minacciato dalla fine, crediamo che il presente sia eterno, ignoriamo che si inaridirà».

«Caro Adam, a questo punto la domanda è: siamo liberi di amare il tale o il talaltro? Scegliamo? Veniamo scelti?».

«L'amore è la dimostrazione che percepiamo la realtà unicamente attraverso il filtro delle nostre fantasie. Peggio, è la prova che la realtà non è poi gran cosa».

domenica 4 febbraio 2024

Recensione di "Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano" di Eric-Emmanuel Schmitt

Buonasera e buona domenica, amici lettori! È così bello per me tornare sul blog un po' più di frequente. Significa che leggo molto e, quindi, rispetto i libri.

Oggi vi porto a Parigi, a Rue-Bleue, dove vive Mosé, un ragazzino ebreo, e dove lavora monsieur Ibrahim, il cosiddetto "arabo", che in realtà è solo musulmano.


Trama: Nel breve intreccio di strade di un popolare quartiere parigino dove i nomi delle vie hanno il sapore delle favole (rue Bleue, rue de Paradis), l'adolescente Momo vive con un padre sprofondato in una silenziosa e fosca depressione. Nello stesso quartiere vive anche monsieur Ibrahim, l'unico arabo in una via "ebrea", titolare della drogheria dove Momo si reca a fare la spesa quotidiana e non esita ogni tanto a sgraffignare qualche scatoletta di conserva... "È solo un arabo, dopo tutto!" pensa Momo, e, con suo grande stupore, il vecchio Ibrahim sembra leggergli nel pensiero: "Non sono arabo, vengo dalla Mezzaluna d'Oro". Così comincia la storia d'amicizia, intessuta di ironia, candore e profonda saggezza, del ragazzo ebreo e dell'anziano "arabo" nell'incanto di un angolo di mondo nel quale le puttane sono belle e cordiali e si accontentano di un orsetto di peluche in cambio dei loro favori e dove, come portata da un sogno, compare addirittura Brigitte Bardot. Come in una favola o un apologo che non pretende di dare lezioni morali ma soltanto proporre un sogno da decifrare, i due protagonisti si incamminano verso il grande mondo, acquistano un'auto che nessuno dei due sa guidare e si dirigono verso Oriente, oltre Istanbul, verso una libertà che li fa inerpicare verso l'alto, guidati da quell'arte di sorridere alla vita racchiusa nei preziosi fiori del Corano.

L'incipit lascia già senza fiato per la sua brutalità: «A undici anni ho rotto il porcellino e sono andato a puttane».
Un bambino di 11 anni che va con le prostitute, quando quella è ancora l'età dei giochi e della spensieratezza. Ma di Mosé si saprà qualcosa solo leggendo le pagine, andando avanti.
Mosé è stato abbandonato dalla madre alla nascita e affidato al padre, un avvocato, che non sembra interessato a lui e che riesce a fare paragoni solo con il figlio maggiore, Popol, andato via con la moglie tanti anni prima. Mosé è una creatura invisibile, un bambino alla disperata ricerca di amore.
Ogni giorno si reca alla drogheria di monsieur Ibrahim, chiamato l'arabo: è qui che compra qualcosa con i pochi soldi che il padre gli dà per fare la spesa, ma spesso ruba delle scatolette. Mosé e Ibrahim si parlano poco, poi sempre più spesso, finché tra i due non nasce una certa amicizia. Scopriremo che Ibrahim non è arabo, ma musulmano e ha un negozio sempre aperto; Mosé, che Ibrahim chiamerà Momo, si affeziona e chiede a Ibrahim tutto ciò che, in teoria, avrebbe dovuto chiedere a suo padre.

Foto di StockSnap da Pixabay

Il bambino impara così a sorridere, a stringere un rapporto con altri ragazzi della sua età, a sentire un pizzico di felicità anche quando la vita gliene concede molto poca. E Ibrahim, il musulmano, diviene di fatto il padre adottivo del ragazzo. Anche quando tutto va in frantumi e l'esistenza di Mosé viene nuovamente sconvolta, è monsieur Ibrahim a prendersi cura di lui. Insieme viaggiano attraverso l'Europa, diretti a Istanbul e il loro legame si fa sempre più bello, esattamente come quello di un padre con un figlio. E il compito di un genitore è proprio quello di accompagnare il proprio figlio durante il viaggio, lasciandogli a un certo punto la mano quando ormai è in grado di cavarsela da solo.
Ma da dove deriva tutta la saggezza di monsieur Ibrahim? Questo personaggio dice sempre di conoscere ciò che c'è nel suo Corano, che forse non corrisponde esattamente al libro, ma al proprio cuore.

Soprattutto in un momento come questo, in cui le guerre imperversano, questo romanzo di Schmitt ha molto da insegnare. Cosa importa essere nati ebrei, o musulmani? O cristiani? O buddisti? Non è la nostra fede a dirci chi siamo, ma il nostro cuore. Mosé ha scelto Ibrahim come padre e Ibrahim ha scelto Mosé come figlio. Non avrebbero potuto essere più differenti, ma tant'è. Quale ruolo ha la fede religiosa dei due? Nessuno, assolutamente nessuno. Ha importanza il loro ruolo come esseri umani, che si rispettano e si amano.
Schmitt si focalizza anche su un altro punto: quello dell'amore assente e dell'amore presente. Un bambino, senza una guida, cerca amore anche dove non dovrebbe. Triste è doverlo pensare a ricercare abbracci e baci nei letti delle prostitute, cui lui ingenuamente regala il proprio orsetto. Un orsetto che simboleggia la fanciullezza, l'innocenza buttata via.
E ancora, si vuol sottolineare la difficoltà di essere genitori. Non tutti riescono a mantenere un impegno che, prima di essere biologico, coinvolge l'animo.
Infine, Schmitt restituisce una speranza a Mosé tramite l'incontro con Ibrahim. Il bambino impara a sorridere, lui che non sapeva nemmeno come si facesse. Con il sorriso, il mondo sembra meno minaccioso e il prossimo meno crudele.
Un libro da leggere per imparare qualcosa, o sarebbe meglio dire, molte cose importanti.
Vi lascio con alcune frasi e vi aspetto alla prossima recensione!

P.S. di questo libro è stato girato un film. Se siete curiosi, guardate qui: (link)

Immagine tratta dal film

«È troppo bello qui, monsieur Ibrahim, davvero troppo bello. Non è per me, non me lo merito»
Monsieur Ibrahim ha sorriso.
«La bellezza è dappertutto, Momo. Dovunque tu giri lo sguardo. È scritto sul mio Corano, questo.»

«Tuo padre non aveva modelli. Ha perso i suoi genitori da piccolo, presi dai nazisti e morti in un campo di concentramento. Tuo padre non aveva mai superato il fatto di essersi salvato. Forse si sentiva in colpa per essere rimasto vivo [...].»

«Ferma la macchina. Lo senti? C'è odore di felicità, è la Grecia. Le persone se ne stanno immobili, si concedono il tempo di guardarci passare, respirano. Vedi, Momo, nella mia vita avrò anche lavorato molto, ma ho lavorato lentamente, prendendomi il mio tempo, senza dannarmi l'anima per incassare di più o accaparrarmi i clienti, no. Il segreto della felicità è la lentezza, proprio così. [...]»

domenica 7 gennaio 2024

Recensione di "Oscar e la dama rosa" di Eric-Emmanuel Schmitt

Buonasera amici! Avevo promesso che sarei tornata prestissimo ed eccomi qui! Come detto ieri sera, quello appena passato e quello attuale non sono i più bei periodi che abbia mai vissuto, ma i libri mi hanno aiutata a isolarmi, o meglio, a vivere altre vite, a sognare, a provare nuove emozioni.

Oggi vi porto a conoscere "Oscar e la dama rosa" di Eric-Emmanuel Schmitt":


Trama: Testa Pelata ha dieci anni e il soprannome gliel'hanno dato per via del cranio completamente pelato a causa delle cure per il cancro a cui si sottopone. La sua vita trascorre in ospedale, in un reparto riservato ai bambini con malattie gravi, i suoi unici amici.Soffre, sa che cure e trapianti non hanno avuto buon esito, sa che presto morirà, eppure quello che a prima vista sembrerebbe un quadro funesto si rivela una meravigliosa e movimentata avventura per merito di Nonna Rose, una “dama rosa”, come vengono chiamate le volontarie che prestano assistenza ai degenti, per via, appunto, del camice rosa che indossano. Nonna Rose trasforma gli ultimi dodici giorni di vita del bambino in un’epopea rutilante di avvenimenti, gli fa vivere l’esistenza che non vivrà, lo mette in grado di vedere esauditi desideri che non avrebbe avuto il tempo di desiderare.

In questo periodo terribile, ho percorso le corsie di un ospedale. Il cuore si è stretto quando sono arrivata davanti a un muro cui erano appesi alcuni lavoretti in ceramica dipinta. Gli autori erano dei bambini, malati oncologici, piccole anime senza speranza o la cui vita era appesa a un filo sottile, quasi trasparente. Mi sono detta - e me lo dico sempre in realtà - che non è giusto nascere per morire dopo pochi anni, trascorrendo la propria infanzia tra le bianche mura di un ospedale, impregnate di odore di disinfettanti e medicine, ed essere osservati con pietà dagli adulti, quando adulti quei bambini non potranno mai diventarci. Perché soffrire?
Oscar se lo chiede e lo domanda anche a Nonna Rose, una volontaria che va a trovarlo in ospedale. Il bambino è malato oncologico. Ha subito un'operazione, ma non è andata a buon fine. Proprio quella signora così strana, che per sembrare forte ha raccontato di essere stata una lottatrice di wrestling, restituisce una speranza e un pizzico di fede a Oscar. Il bimbo ha un'aspettativa di vita di una decina di giorni, ormai non potrà più riprendersi, ma Nonna Rose gli dice che ogni giorno lui crescerà di 10 anni. Nonna Rose, di fatto, regala un'esistenza normale a Oscar che diventa quindi adolescente, dà il suo primo bacio a Peggy Blue (la bambina con il colorito blu), fino ad essere adulto e poi anziano. Un'intera vita racchiusa in pochi istanti durante i quali Oscar, sempre su consiglio di Nonna Rose, scrive a Dio, raccontandogli la sua esperienza e chiedendogli sempre di venirlo a trovare. Perché un Dio che ti ama non può farti soffrire così tanto, si dice Oscar. Eppure la sofferenza fa parte della vita. Anche Dio ha sofferto, gli spiega Nonna Rose, un Dio cui l'uomo si sente più vicino.

Foto di Myléne da Pixabay

Attraverso uno stile coinvolgente e molto dolce, tipico delle riflessioni fatte dai bambini, l'autore ci trasporta nel cuore grande di Oscar e di tutti quei piccoli malati terminali per i quali le cose più importanti sono la speranza e la vicinanza delle persone sensibili.

Vi lascio con qualche frase tratta dal libro e vi aspetto con la prossima recensione, sempre qui, tra le pagine virtuali del blog!

«Pensaci un attimo, Oscar. A chi ti senti più vicino? A un Dio che non prova niente o a un Dio che soffre?».
«A quello che soffre, è chiaro. Ma se fossi Dio come lui, se avessi i suoi mezzi, avrei evitato di soffrire».
«Nessuno può evitare di soffrire. Né Dio né tu. Né i tuoi genitori né io».

«La gente ha paura di morire perché teme l'ignoto. Ma l'ignoto, per l'appunto, non si sa cosa sia. Io ti propongo di avere fiducia anziché paura, Oscar. Guarda la faccia di Dio sulla croce: subisce la pena fisica, ma non sente la pena morale perché ha fiducia. A quel punto anche i chiodi fanno meno male. Continua a ripetersi: mi fa male, ma non può essere un male. Ecco qual è il beneficio della fede. Volevo fartelo vedere».

«Ho cercato di spiegare ai miei che la vita è un regalo strano. Da principio la si sopravvaluta, si crede di aver ricevuto la vita eterna. Poi si sottovaluta, la troviamo marcia, troppo corta, si è quasi pronti a buttarla via. Alla fine ci si rende conto che non è un regalo, ma un prestito. Allora si cerca di meritarselo. Ho cent'anni, so di cosa parlo. Più si invecchia, più è necessario avere gusto per apprezzare la vita. Bisogna diventare raffinati, artisti. Qualsiasi imbecille può gioire della vita a dieci o vent'anni, ma a cento, quando non si riesce più a muoversi, bisogna usare l'intelligenza».

mercoledì 29 novembre 2023

Recensione di "Cambiare l'acqua ai fiori" di Valérie Perrin

Buonasera, amici lettori! Bentornati tra le pagine virtuali del mio blog!

Orario piuttosto insolito per scrivere un post. Solitamente sto ancora studiando (non si finisce mai), ma sono stata letteralmente rapita dal romanzo di cui vi parlerò. Quale? "Cambiare l'acqua ai fiori" di Valérie Perrin.


Trama: Violette Toussaint è guardiana di un cimitero di una cittadina della Borgogna. Ricorda un po’ Renée, la protagonista dell’Eleganza del riccio, perché come lei nasconde dietro un’apparenza sciatta una grande personalità e una storia piena di misteri. Durante le visite ai loro cari, tante persone vengono a trovare nella sua casetta questa bella donna, solare, dal cuore grande, che ha sempre una parola gentile per tutti, è sempre pronta a offrire un caffè caldo o un cordiale.
Un giorno un poliziotto arrivato da Marsiglia si presenta con una strana richiesta: sua madre, recentemente scomparsa, ha espresso la volontà di essere sepolta in quel lontano paesino nella tomba di uno sconosciuto signore del posto. Da quel momento le cose prendono una piega inattesa, emergono legami fino allora taciuti tra vivi e morti e certe anime che parevano nere si rivelano luminose.

Eh sì, ultimamente ho letto ben due libri che trattano di cimiteri, ma è stato solamente un caso. Avevo sentito parlare di questo romanzo, un caso editoriale. Personalmente non mi sbilancio mai così tanto, ma devo ammettere che l'autrice è riuscita a tenere il filo di vari personaggi, ognuno con una propria complessa personalità, ognuno con un duro passato alle spalle e ognuno dei quali è cambiato con il tempo, subendo una vera e propria metamorfosi.

Violette è la protagonista, la guardiana del cimitero di Brancion, un camposanto estremamente vivo, colorato dalle mille corolle dei fiori e curato. Un cimitero che mi sono immaginata piccolo e ordinato, con le sue tombe terragne, le lapidi in marmo bianco e le più antiche in pietra con foto in bianco e nero.

Sarà forse azzardato avanzare un paragone ma è proprio quel luogo che riflette Violette: il cimitero appare nell'immaginario comune come un posto vuoto, desolato, dimora della morte, eppure fiori e colori sorgono al suo interno, talvolta nascosti. Fiori che dimostrano che anche da un luogo cupo può nascere la vita.

L'esistenza di Violette è stata indubbiamente disgraziata: abbandonata alla nascita, non ha mai avuto una famiglia. In cerca perenne di affetto, da ragazzina è stata sedotta da Philippe Toussaint e messa incinta. Così comincia la sua condanna, rasserenata solo dalla nascita di Léonine, una meravigliosa bimba. A Violette tocca lavorare perché Philippe, figlio nullafacente di una ricca coppia di ex impiegati statali, delega tutto a lei. Philippe si limita a giocare al Nintendo, a fare giri in moto e a tradirla con mille altre donne delle quali non conosce nomi, né ricorda i volti. La quotidianità di Violette ruota intorno al passaggio a livello, di cui deve abbassare manualmente la sbarra, e alla piccola Léo, che cresce allegra e dolcissima.

Eppure, Violette non ha ancora smesso di soffrire. La morte inaspettata della figlia, scomparsa a causa di un incendio all'interno di un castello in cui i nonni l'avevano inviata in vacanza, è un macigno che pesa sullo stomaco. Nulla ha più senso. I colori si spengono ed è tutto completamente dolore. Anche il marito, sempre assente, sembra quasi riscuotersi. Era lui il padre di Léonine, una figlia che non ha mai considerato perché avrebbe voluto un maschio, una figlia di cui conosceva molto poco. Entrambi, separati sentimentalmente da sempre, vengono accomunati dal dolore e dalla ricerca spasmodica della verità che, infine, sarà devastante.

Violette riesce a riemergere dal buio solo grazie a Sasha, il guardiano del cimitero in cui è sepolta sua figlia. Sasha vive lì, in una casetta che profuma di tè e spezie, biscotti e miele; una piccola struttura intonacata con un giardinetto e un orto rigogliosi. Anche Sasha nasconde una dolorosa storia, ma forse è proprio grazie alla condivisione del dolore che Violette si fiderà di quest'uomo, fino a farsi curare le ferite, facendo sì che, una volta in pensione, Sasha voglia lasciare il proprio incarico alla donna.


I giorni di Violette si susseguono in quel camposanto, dove impara a conoscere i becchini, i necrofori, i gatti e la cagnolina, le piantine, i visitatori. Non può sapere che tra questi ultimi c'è anche la mamma di Julien, Irène Fayolle, con la quale scambia alcune parole e dei fiori per la tomba dell'uomo che andava sempre a trovare, Gabriel Prudent, l'amante. Una storia contorta, passionale, piena di sensi di colpa quella di Irène e Gabriel che si sono ritrovati liberi di vivere il loro amore solo dopo la morte. E Julien, in possesso del diario di Irène, cerca la signora del cimitero, Violette, trovandola e facendo sì che i fiori nell'animo della donna tornino ad aprire le corolle, illuminando di colori quella vita aspra che tanto dolore le aveva provocato.

Mi risulta complesso aggiungere oltre senza rivelare dettagli di questa storia intrecciata, appassionante, devastante, a tratti amara e al contempo dolcissima, dai toni delicati ottenibili solo grazie al sapiente uso degli acquerelli.

Mi soffermerò sull'evento che scuote il lettore e i protagonisti: la morte della bambina, Léonine. Un piccolo angelo venuto a mancare troppo presto e con modalità ignote, apparentemente a causa di un incendio, insieme alle sue amichette. Quattro corpicini carbonizzati nella stanza di un vecchio castello.

Se per Violette la morte di Léo costituisce un baratro da cui riesce ad emergere solo grazie alle pazienti cure di un sapiente guardiano del cimitero, per Philippe è una presa di coscienza. Philippe Toussaint, un uomo spregevole, cerca la verità, deve capire perché quella giovane vita è stata spezzata e da chi. Soprattutto da chi... cerca vendetta, ma non l'avrà, non potrà averla. In questo percorso, Philippe capisce di aver sbagliato ogni cosa, facendosi trasportare dall'indolenza, dagli agi che la sua famiglia mai gli aveva fatto mancare, dalle cose futili, senza amare veramente. Che vita ha vissuto Philippe Touissant? Quale merito ha avuto? La sola cosa bella che era riuscito a fare non era una "cosa", ma sua figlia e l'aveva perduta perché - nella sua mente di padre - non era riuscito a proteggerla, a prendersi cura di lei.
Mette quindi una pietra sul passato e ricomincia una vita diversa, quella che aveva sempre desiderato e che non era riuscito ad avere. Lavora persino, finché il peso delle sue malefatte e quello della triste verità lo schiacceranno.
Una morte, quella di Léonine, che corrisponde quasi al trillo di una campana: fa riscuotere i cuori, fa cambiare entrambi i suoi genitori che, in modo diverso, cercano di "risorgere" da quelle ceneri lasciate indietro.


Il romanzo è piuttosto lungo, 94 capitoli, ma non ve ne accorgerete perché la scrittura è fluida, il ritmo incalzante e, al contempo, delicato come pennellate sulla carta. Un bellissimo libro di cui, non nego, mi piacerebbe una trasposizione cinematografica che rispetti la trama, senza stravolgerla.

Vi auguro una buona serata e vi aspetto qui con la prossima recensione!

«Succede sempre così con la morte: più è antica e meno presa ha sui vivi. Il tempo distrugge la vita. Il tempo distrugge la morte».

«Essendosi spenta la vita principale il vulcano era morto, ma sentivo crescere dentro di me ramificazioni e controviali, sentivo quel che seminavo. Mi inseminavo. Eppure la terra desertica di cui ero fatta era molto più povera di quella dell'orto del cimitero, ero una pietraia. Ma un filo d'erba può crescere ovunque, e io ero fatta di quell'ovunque. Sì, una radice può attecchiare anche nel catrame, basta una microfessura per far penetrare la vita all'interno dell'impossibile. Un po' di pioggia, un po' di sole, e spuntano germogli venuti da chissà dove, forse portati dal vento. Il giorno in cui mi sono chinata a raccogliere i pomodori che avevo piantato sei mesi prima Léonine ricopriva da un pezzo l'orto con la sua presenza, come se avesse portato il Mediterraneo fino al giardino del cimitero in cui era sepolta. Quel giorno ho capito che era all'interno di ogni miracolo che la terra produceva».

«Ogni tomba è una pattumiera. Si sotterrano i resti, le anime sono altrove».

«Finché, come i gatti del cimitero, anche il sole è entrato in camera mia, si è infilato sotto le lenzuola. Ho aperto le tende, poi le finestre. Sono scesa in cucina, ho messo a bollire l'acqua per il tè e fatto prendere aria alla stanza. Mi sono ridedicata al giardino, ho ricominciato a cambiare l'acqua ai fiori, ho di nuovo ricevuto le famiglie e offerto loro qualcosa di caldo o di forte da bere».

venerdì 31 gennaio 2020

Recensione di "Come fermare il tempo" di Matt Haig

Buon pomeriggio a tutti, cari lettori! Come state? Quale libro avete sul comodino in questo periodo?
Personalmente, dopo aver usato la mia gift card Mondadori, ho una pila di libri... e ogni volta che entro in qualche libreria, devo comunque trattenermi dallo spendere minimo quei 10 euro per tornare poi a casa con una busta e una storia da leggere. Ma come dico sempre, i soldi dedicati ai libri sono ben spesi!
Ultimamente ho letto la storia di Tom, racchiusa in un romanzo dalla copertina azzurra, con una clessidra contenente una rosa rossa - che mi ha sempre fatto pensare alla maledizione della Bestia - la sagoma di un uomo seduto sulla sabbia in posa riflessiva e il suo cane accucciato al fianco.
Un micromondo racchiuso all'interno del simbolo del tempo che, inesorabilmente, trascorre.


Trama: Pensate a un uomo che dimostra quarant’anni, ma che in realtà ne ha più di quattrocento. Un uomo che insegna storia nella Londra dei giorni nostri, ma che in realtà ha già vissuto decine di vite in luoghi e tempi diversi. Tom ha una sindrome rara per cui invecchia molto lentamente. Ciò potrebbe sembrare una fortuna… ma è una maledizione. Cosa succederebbe infatti se le persone che amate invecchiassero normalmente mentre voi rimanete sempre gli stessi? Sareste costretti a perdere i vostri affetti, a nascondervi e cambiare continuamente identità per cercare il vostro posto nel mondo e sfuggire ai pericoli che la vostra condizione comporta. Così Tom, portandosi dietro questo oscuro segreto, attraversa i secoli dall’Inghilterra elisabettiana alla Parigi dell’età del jazz, da New York ai mari del Sud, vivendo tante vite ma sognandone una normale. Oggi Tom ha una buona copertura: insegna ai ragazzi di una scuola, raccontando di guerre e cacce alle streghe e fingendo di non averle vissute in prima persona. Tom deve a ogni costo difendere l’equilibrio che si è faticosamente costruito. E sa che c’è una cosa che non deve assolutamente fare: innamorarsi.
Come fermare il tempo è una storia folle e dolceamara su come perdere e poi ritrovare se stessi, sull’inevitabilità del cambiamento e sul lungo tempo necessario per imparare a vivere. Una storia bellissima in cui riconoscersi, per piangere su tutto ciò che perdiamo e per rallegrarci delle meraviglie della vita.


Da sempre, l'uomo ha cercato un modo per non invecchiare, per rimandare al più tardi possibile l'epoca dei capelli bianchi, delle rughe, della debolezza, delle malattie e, infine, della morte. Tom, a volte, vorrebbe invece provare l'ebrezza di vedere qualche segno di anzianità sul suo viso, vorrebbe in casi estremi farla finita... Tom ha più di 400 anni. Soffre di una sindrome definita "anageria", che lo fa invecchiare molto lentamente. Ha vissuto l'epoca della caccia alle streghe e della superstizione, quella di Shakespeare, del capitano Cook, le guerre mondiali, fino a giungere al XXI secolo in cui ha deciso di fare l'insegnante a Londra per un po' di tempo, finché non desterà troppi sospetti e sarà costretto a cambiare di nuovo paese e identità.


La sua intera esistenza è andata avanti così, impregnata di dolore, una fuga continua dalla normalità che lo accusava di essere diverso e, perciò, di costituire una minaccia. 
Eppure, in passato, Tom ha conosciuto l'amore, Rose... una donna semplice e dolce che non ha mai dimenticato, una donna che ha visto invecchiare al suo fianco mentre lui manteneva l'aspetto di un ragazzo e dalla quale ha avuto una figlia, Marion, perduta quando è stato costretto a fuggire per non mettere nessuno in pericolo.


Correvano gli anni 1665-1666 e a Londra la peste mieteva vittime. Rose fu una di queste. Da allora, Tom ha iniziato ad essere il fantasma di se stesso: vagando per innumerevoli paesi, viaggiando in lungo e in largo, inventandosi lavori e identità, portando nel suo cuore una parte di sé, sua figlia, che aveva ereditato l'anageria, e il sogno di ritrovarla.
Tom e Marion non sono però gli unici nella loro particolarità. Esiste una società, quella degli Albatros, capitanata da un tale Hendrich, che apparentemente ha lo scopo di riunire tutti gli uomini e le donne con questa mutazione per proteggerli da eventuali esperimenti scientifici. La verità, invece, è ben altra... E una delle regole principali è non innamorarsi delle effimere, ovvero dei normali essere umani. Ma cos'è una lunga vita senza l'amore?


Tra spunti di riflessione e un velo di malinconia che impregna le pagine del libro, gli occhi di Tom - che riescono a guardare la stratificazione del tempo - conducono il lettore ad osservare una realtà composta di piccoli istanti, di un passato, un presente e un futuro che, talvolta, si fondono tra loro.
L'anageria è un dono forse, mentre per lui costituisce ormai una condanna, un'eterna solitudine, che lo ha costretto a chiudersi all'interno di una gabbia di paure, con la sola piccola speranza di ritrovare la figlia. Eppure, infine, vivere un'esistenza così lunga deve avere un senso. E quel senso, quella motivazione, è proprio l'amore, ciò che Tom aveva evitato per tanti secoli e che, inconsciamente, portava dentro di sé, ciò di cui aveva bisogno... proprio come ogni essere umano.


"Come fermare il tempo" riprende una tematica che, come dicevo in principio, ha affascinato numerosi filosofi e, in generale, l'uomo da sempre. Il tempo, lo scorrere continuo di istanti, un passato verso cui non si può tornare, un futuro che non si può conoscere e un presente che, molto spesso, sottovalutiamo senza gustarlo appieno. Non si tratta, perciò, di un argomento nuovo. La bravura di Matt Haig consiste, però, nell'aver costruito un personaggio meraviglioso, mutevole per necessità, ma sensibile, solitario, malinconico, un po' come le note provenenti dal liuto che Tom sapeva suonare così bene, fino a inserirlo ogni volta in un contesto storico approfondito quanto basta per creare scorrevolezza e curiosità.
Un bel romanzo che consiglio assolutamente di leggere, un libro che ormai considero come uno dei miei migliori amici di carta.

«Mi sono innamorato una volta sola in vita mia. Immagino che, in un certo senso, questo faccia di me un romantico. L'idea che noi tutti abbiamo un univo vero amore, e che dopo la sua scomparsa nessun altro possa reggere il confronto. È un'idea dolce, ma la realtà è terrore puro. Dover affrontare innumerevoli anni di solitudine dopo. Esistere quando il senso della propria vita non c'è più. E il senso della mia vita, per un po', è stato Rose».

«Immagino sia questo il prezzo da pagare per l'amore: assorbire il dolore di un'altra persona come se fosse il proprio».

«Posò il liuto sul letto accanto a sé e mi baciò. Chiusi gli occhi, e il resto del mondo svanì. Non esisteva nient'altro. Nient'altro, tranne lei. Lei era le stelle, il firmamento e gli oceani. Non c'era altro che quell'unico frammento di tempo, e quel germoglio d'amore che vi avevamo piantato. E poi, dopo un po' che era iniziato, il bacio terminò, e io le accarezzai i capelli, e le campane della chiesa suonarono in lontananza, e ogni cosa nel mondo fu in ordine».


«Ci baciammo. Chiusi gli occhi e aspirai l'odore della lavanda e quello di Rose. Mi sentivo così terrorizzato e innamorato da rendermi conto che quei due sentimenti (il terrore, l'amore) in realtà erano una cosa sola».

«È strano quanto sia vicino il passato, anche quando lo credi lontanissimo. Strano come sia capace di balzare fuori da una frase e aggredirti. Strano come ogni oggetto, ogni parola possa ospitare un fantasma. Il passato non è un luogo a parte. È molti, molti luoghi, sempre pronti a risorgere nel presente».

«Spesso la vita va così. Aspetti qualcosa per tanto, tanto tempo: una persona, un sentimento, un'informazione, e alla fine, quando te la trovi davanti, non riesci quasi a rendertene conto. Il buco è così abituato a essere tale che non è più capace di richiudersi».

«Le persone che ami non muoiono mai».


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