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lunedì 20 marzo 2023

Recensione di "Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza" di Dacia Maraini

Buonasera, amici lettori! In questa domenica di marzo, mi ritrovo qui, nella mia virtuale Sàkomar, a parlarvi di un nuovo libro che ho terminato di leggere tutto d'un fiato proprio pochi minuti fa.
Si tratta di un lavoro di Dacia Maraini: "Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza".


Trama: È la storia di un incontro, questo libro intimo e provocatorio: tra una grande scrittrice che ha fatto della parola il proprio strumento per raccontare la realtà e una donna intelligente e volitiva a cui la parola è stata negata. Non potrebbero essere più diverse, Dacia Maraini e Chiara di Assisi, la santa che nella grande Storia scritta dagli uomini ha sempre vissuto all'ombra di Francesco. Eppure sono indissolubilmente legate dal bisogno di esprimere sempre la propria voce. Chiara ha dodici anni appena quando vede "il matto" di Assisi spogliarsi davanti al vescovo e alla città. È bella, nobile e destinata a un ottimo matrimonio, ma quel giorno la sua vita si accende del fuoco della chiamata: seguirà lo scandaloso trentenne dalle orecchie a sventola e si ritirerà dal mondo per abbracciare, nella solitudine di un'esistenza quasi carceraria, la povertà e la libertà di non possedere. Sta tutta qui la disobbedienza di Chiara, in questo strappo creativo alle convenzioni di un'epoca declinata al maschile. Perché, ieri come oggi, avere coraggio significa per una donna pensare e scegliere con la propria testa, anche attraverso un silenzio nutrito di idee. In questo racconto, che a volte si fa scontro appassionato, segnato da sogni e continue domande, Dacia Maraini traccia per noi il ritratto vivido di una Chiara che prima è donna, poi santa dal corpo tormentato ma felice: una creatura che ha saputo dare vita a un linguaggio rivoluzionario e superare le regole del suo tempo...

È accaduto così, come un colpo di fulmine: entro nella libreria Mondadori, vedo la copertina del libro in un tavolo centrale dove ne sono esposti altri e rimango per almeno 5 minuti a leggere qualche pagina. Rimetto a posto il libro, lo osservo, mi dico "No, hai tanti romanzi che non sai nemmeno più dove metterli", faccio un giro del negozio e, sul punto di uscire, lo prendo, vado in cassa e pago.

Sono stata per la prima volta ad Assisi quando facevo le medie. Era una giornata grigia e piovosa. Ricordo la basilica di San Francesco, che aveva appena subito i danni di quello spaventoso terremoto, i cui effetti si erano sentiti anche a Roma. Ricordo la sedia che si muoveva ondeggiando, mentre stavo seguendo una lezione di catechismo con mio fratello. Una basilica magnifica, dagli affreschi spettacolari, squarciata da orribili crepe. Eppure c'era qualcosa lì che andava a sfiorare le corde del mio cuore. San Francesco è sempre stato un personaggio che mi ha affascinata. Sono stata battezzata il 4 ottobre, amo la natura e gli animali. Mi hanno sempre detto "Avresti dovuto chiamarti Francesca, in onore del Santo di Assisi".

Foto di Cristina Cumbo

Insomma, ho sempre avvertito un legame particolare con quei luoghi immersi nel verde delle colline. E lo scorso anno, a fine febbraio, sono tornata ad Assisi. Era un periodo gelido, nevicava, mi trovavo in una casa per ferie religiosa dove il riscaldamento praticamente non esisteva. Ho veramente patito il freddo, ma ho anche trascorso le mie giornate in pace e tranquillità. È stata quella settimana ad Assisi a restituirmi un po' di forza di cui avevo tanto bisogno, di calma soprattutto, lontana da Roma, dal caos e dai problemi. Nell'unica giornata mite mi sono recata a San Damiano. Sono tornati alla mente i ricordi di bambina, quella salita paurosa da affrontare al ritorno che, come allora, ha avuto l'effetto di lasciarmi senza fiato poco oltre la metà, ma in ogni caso ne è valsa la pena.
Quel piccolo convento emana un'aura particolare. Sembra provenire da un'altra dimensione, da un altro tempo. I ciclamini nel chiostro, gli affreschi antichi, le pietre delle murature che hanno visto passare religiosi e pellegrini creano un clima di pace, ristoratrice dell'anima.

Foto di Cristina Cumbo

Di San Francesco, quindi, si sente sempre parlare. C'è una letteratura intera su di lui, il poverello di Assisi, che rivoluzionò (in meglio) il mondo ecclesiastico dell'epoca. Di Santa Chiara, come di tutte le donne che hanno fatto la storia, si sente parlare molto meno. Siamo cresciuti con una cultura prevalentemente maschilista. Delle donne, che pure esistevano e compivano gesta degne di nota, non si sapeva nulla; se lasciavano testimonianze scritte, non confluivano nella letteratura, tanto meno in quelle artistiche se si trattava, appunto, di artiste. Le scienziate - come, per esempio, Marie-Curie e la Montalcini - hanno dovuto faticare non poco per essere considerate in un mondo di soli uomini.

Foto di Cristina Cumbo

Foto di Cristina Cumbo

Foto di Cristina Cumbo

Oggi le cose sono cambiate? Sì, forse qualche passo avanti lo abbiamo fatto, ma l'apparenza è tanta. Sotto la coltre del rispetto verso la donna e delle tante belle parole di circostanza, c'è un mondo ancora ostile. E pensare che non ci sarebbe bisogno di fare questa battaglia: il rispetto dovrebbe essere implicito e, invece, c'è ancora chi è convinto che la donna sia un essere inferiore, destinata solo alla procreazione e all'allevamento dei figli, poco più di una incubatrice senza diritti.

Ad ogni modo, si diceva, di Santa Chiara si sente parlare molto meno di San Francesco, eppure proprio dalla sua regola si sviluppò il mondo dei monasteri femminili e, in un certo senso, fu lei a ribellarsi a un universo che eliminava ogni forma di libertà per la donna.
Paradossalmente, Chiara e le sue consorelle, decidendo di prendere i voti, sceglievano la libertà. Quale? Quella di non sposarsi obbligatoriamente con uomini che nemmeno conoscevano, per giunta più grandi di loro; quella di non dover sottostare alle leggi del padre o del marito; quella di potersi dedicare a se stesse; quella di avere un proprio pensiero, non imposto.

Questo è il primo libro di Dacia Maraini che leggo, nonostante l'abbia spesso sentita nominare. La Chiara del presente, una ragazza siciliana, con una situazione familiare disgraziata e un contesto cui non appartiene, scrive alla Maraini per far sì che lei stessa inizi la stesura di un approfondimento sulla figura di Chiara di Assisi. Un artificio, questo, che consente al lettore di porre a confronto la Chiara di oggi con quella di allora, e di trovarvi in realtà molti aspetti in comune.
La Maraini si documenta, legge numerosi contributi sulla vita nel Medioevo, sulla figura di Chiara e su quella di Francesco. In questo modo ci presenta una ragazza, di famiglia benestante, che decide di seguire le gesta di Francesco. Ovviamente, così come il futuro fondatore dell'Ordine dei Frati Minori, viene considerata come una pazza. Si spoglia di tutti i suoi averi e si reca a San Damiano, che all'epoca era un luogo in rovina. Poco a poco la seguono altre donne, costituendo così una piccola comunità. L'autrice la descrive mentre cammina per il convento, con i piedi nudi e divenuti callosi, la veste ruvida e pruriginosa, i capelli un tempo lunghi che sono stati tagliati, persino in favore della tonsura.

Chiara è badessa, ma non comanda. Lei dà l'esempio con il suo modo di vivere umile, amando la povertà e segue la mortificazione del corpo (faceva uso del cilicio), si prende cura delle suore anziane, guarisce i bambini che le vengono portati dalla gente del paese, cuce, lavora la terra per il sostentamento del gruppo di monache e dorme sul pavimento, in un giaciglio, con una pietra come cuscino. Anche quando si ammala, non finisce di adoperarsi per il convento e prosegue a ricamare. Secondo la storia, per merito suo le truppe di Federico II non distrussero il convento di San Damiano. E oltre questo, prega, ringrazia sempre il Signore.

Dacia Maraini fornisce una descrizione della donna Chiara. Non della santa, non dei miracoli, ma del suo aspetto "umano", così vicino a noi, dipingendo una ragazza prima e una donna poi forte, determinata, ribelle verso le convenzioni sociali, che nel silenzio del convento ritrova se stessa e la sua libertà. Non si tratta, quindi, di una biografia, né di un testo agiografico, ma quasi di un racconto articolato grazie alle testimonianze delle monache che conobbero Chiara.

Ho fatto bene, dunque, a tornare indietro e acquistare quel volume che mi aveva parlato senza nemmeno che lo aprissi? Sì, assolutamente sì e lo consiglio, non solo a chi interessa la letteratura religiosa, ma a tutti coloro che vogliano conoscere la storia di una donna che, prima di ogni altra, ha cercato e raggiunto la libertà in un mondo in cui il genere femminile si trovava all'ultimo posto della scala sociale.

martedì 7 marzo 2023

Recensione di "Il Consiglio d'Egitto" di Leonardo Sciascia

Buonasera a tutti, amici lettori. Bentornati a Sàkomar, dove la sottoscritta vi introdurrà la recensione di un romanzo di Leonardo Sciascia. Non avevo mai letto nulla di questo autore, pur avendone sentito parlare. Siete pronti ad entrare nel bel mezzo dell'impostura?


Trama: Abdallah Mohamed ben Olman, ambasciatore del Marocco, si trova a Palermo nel dicembre 1782 per via di una tempesta che ha fatto naufragare la sua nave sulle coste siciliane. È questo il caso che fa nascere, nella mente dell'abate Vella, maltese e incaricato di mostrare all'ambasciatore le bellezze di Palermo, un disegno audacissimo: far passare il manoscritto arabo di una qualsiasi vita del profeta, conservato nell'isola, per uno sconvolgente testo politico, Il Consiglio d'Egitto, che permetterebbe l'abolizione di tutti i privilegi feudali e potrebbe perciò valere da scintilla per un complotto rivoluzionario. Apparso nel 1963, Il Consiglio d'Egitto è in certo modo l'archetipo, e il più celebrato, dei romanzi-apologhi di Sciascia, dove lo sfondo storico della vicenda si anima fino a diventare una scena allegorica, che in questo caso accenna alla storia tutta della Sicilia.

Siamo nella Sicilia del Settecento, a Palermo, dove l'ambasciatore del marocco ha un problema di navigazione. Il Viceré Caracciolo si rivolge all'abate Giuseppe Vella, noto per la sua conoscenza della lingua araba, in un periodo in cui è quasi sconosciuta in una terra che, pure, era stata araba.
Insieme a Monsignor Airoldi, l'abate Vella mostrerà a Ibn Hamdis un "misterioso" codice manoscritto custodito nel monastero di San Martino: si dice sia molto importante, pregiato, invece è una semplice storia della vita di Maometto. Una volta partito l'ambasciatore, Vella non vuole rinunciare agli agi e convince Airoldi ad affidargli la traduzione del testo. Vella lo modifica, slegandolo e ricomponendolo senza un ordine, riscrivendolo addirittura e inventando di sana pianta i caratteri mauro-siculi. Effettua quelle che chiameremmo alterazioni e contraffazioni: nel suo laboratorio conventuale, l'abate di San Pancrazio (attenzione, non è un caso che Sciascia abbia scelto questo santo) prosegue, sempre più emozionato a produrre i documenti della sua impostura. Il codice di San Martino viene trasformato nel Consiglio di Sicilia, in cui ricostruisce a fantasia la storia del Regno.
Crea, in seguito, un intero codice falso, "Il Consiglio d'Egitto", generando scompiglio tra la nobiltà perché la storia delle proprietà terriere viene totalmente rimodulata e, di conseguenza, le tasse aumentano in base ai dati catastali. Intanto è proprio la nobiltà a cercare Vella, tentando di ingraziarselo: è come se le sue mani di traduttore tenessero i fili della sorte degli aristocratici siciliani.
Intanto l'avvocato Di Blasi, l'illuminista, che pure ha conosciuto Vella, cerca di guidare una congiura.
Il romanzo proseguirà finché l'imbroglio non viene scoperto: si investiga sull'abate Vella, il suo studio viene messo a soqquadro, vengono raccolte le prove (l'assistente di Vella, Cammilleri, confessa), ma sarà lo stesso Giuseppe Vella, infine, stanco delle vicende, a dire la verità. Infine, Di Blasi sarà condannato a morte per i suoi piani, ma anche qui il finale non è certamente ovvio.

Il romanzo di Sciascia si pone sulla linea della narrazione allegorica, "celando" in sé le vicende che coinvolgono la Sicilia in quegli anni: i principi dell'illuminismo fanno gran fantica a innestarsi nel Regno di Napoli, dove ancora le trame della nobiltà e della Corona sono troppo radicate.
Il tutto sfocia, quindi, nei due personaggi principali: Vella che trama un'impostura basata sulla falsificazione storica e Di Blasi che, invece, cospira, organizzando un mutamento radicale. Ma nemmeno questo basterà a far cambiare quella società.

Ho ritenuto ammirevole la costruzione del personaggio dell'abate Vella, con il suo studio quasi alchemico, in cui falsifica manoscritti, partecipando poi alla vita sociale, aristocratica, ingraziato da coloro che sono interessati affinché non si perdano le proprietà. L'impostura di Vella rivela, in realtà, una mentalità che, purtroppo, ancora va avanti: in cambio di un favore, tu dai qualcos'altro a me, anche se ciò può produrre un danno.

Foto di Kira da Pixabay

Mi preme, infine, sottolineare un dettaglio che, forse, solo un'archeologa cristiana poteva notare: il fatto che Vella sia associato a San Pancrazio (abate di San Pancrazio). A questo santo, sepolto sulla via Aurelia Antica, nell'omonima catacomba romana su cui sorse poi la basilica, "non piacevano le bugie": gli spergiuri che si avvicinavano al suo sepolcro, infatti, sarebbero morti prima di giungere a destinazione. Curioso l'abbinamento Vella/bugiardo e mentitore con San Pancrazio: una sottile ironia che l'autore sapientemente usa nella narrazione.
Vi lascio con alcune citazioni e vi aspetto alla prossima recensione!


«Ho visto tante volte la verità confusa e la menzogna assumere le apparenze della verità...»

«"In effetti" disse l'avvocato Di Blasi "ogni società genera il tipo d'impostura che, per così dire, le si addice. E la nostra società, che è di per sé impostura, impostura giuridica, letteraria, umana... Umana, sì: addirittura dell'esistenza, direi... La nostra società non ha fatto che produrre, naturalmente, ovviamente, l'impostura contraria...»

«L'abate aprì il breviario: fingeva di leggerlo, gli occhi fermi sulla carrozza. E si diceva che quel che stava facendo era stupido, persino ridicolo: come tutte le cose dettate dal sentimento, che solo nella sfera del sentimento hanno significato e sono invece grottesche nella realtà».
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