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sabato 20 gennaio 2024

Recensione di "Il trafugatore di salme" di Robert Louis Stevenson

Buongiorno amici lettori e bentornati sul mio blog!
Dove vi porto oggi? A conoscere alcuni brevi racconti di Robert Louis Stevenson. Se state facendo una faccia sorpresa, sappiate che nemmeno la sottoscritta ne sapeva nulla. Durante una mattinata di qualche mese fa, sono entrata - non per caso - all'interno della libreria "Libraccio" in via Nazionale, a Roma. E qui, su un tavolino, si trovavano una serie di libriccini, tra cui "Il trafugatore di salme" di Robert Louis Stevenson. Incuriosita da questo libretto azzurrino, ho deciso di fermarmi a sfogliarne qualche pagina, fino al suo acquisto.
Nonostante esista una introduzione, ho preferito leggere direttamente il racconto, tornando poi su di essa solo al termine.



ATTENZIONE: SPOILER

Nel locale "George" di Debenham, un gruppo di uomini si riunisce in una notte d'inverno. Ad un certo punto, al suo interno entra "il dottore". Si tratta di Macfarlane, medico, che non passa inosservato agli occhi di Fettes, perennemente ubriaco, ma in quell'istante stranamente lucido. I due hanno uno scambio di battute, ma Marcfarlane sembra in difficoltà. Il dottore, alla fine, esce e Fettes specifica che non era proprio una gran brava persona. Qui si inserisce la narrazione riguardante il passato di Fettes, un tempo aiutante del dott. K., docente di anatomia che, per insegnare la materia, dissezionava cadaveri. Nessuno degli aiutanti doveva domandarsi da dove arrivassero quei corpi, perché con ogni probabilità erano esito di omicidi. Il primo indizio, infatti, apparve davanti gli occhi di Fettes quando, durante una notte, si ritrovò davanti il cadavere di una ragazza che, solo poco tempo prima, aveva visto viva e vegeta. Sul suo corpo spiccavano segni di violenza.
Fettes, inorridito, non si rivolse al dott. K, ma al suo assistente, Macfarlane. Il consiglio fu quello di tacere, nonostante la faccenda fosse poco chiara.

Qualche giorno dopo, i due si ritrovano in un locale, dove Macfarlane è in compagnia di uno sconosciuto, un tipo grossolano, di nome Gray. Questo soggetto deride Macfarlane, sul volto di cui si disegna rabbia, ma la vicenda finisce lì, finché alle quattro del mattino di qualche giorno dopo, Fettes sente bussare alla porta. Macfarlane stava portando un cadavere: quello di Gray.
Lì Fettes capisce che i sospetti sul dott. K erano fondati e Macfarlane era certamente il suo braccio destro nell'esecuzione degli omicidi per far sì che il laboratorio di anatomia fosse sempre provvisto di materiale su cui lavorare. Fettes si ritrova quindi immischiato in una situazione da cui è complicato uscire, preferendo tacere e collaborare, colto talvolta da moti di crudeltà che sembrano impossessarsi di lui. Gray viene quindi sezionato, mentre il dott. K e gli studenti effettuano le loro esercitazioni.

Nel frattempo, era morta anche una signora ed era stata seppellita nel cimitero di campagna. Dovendo rifornire il laboratorio di cadaveri, Macfarlane e Fettes decidono di recarsi nottetempo nel cimitero, dove non li avrebbe visti nessuno e di trafugare la salma. Il viaggio, con il calesse immerso nell'oscurità, diventa ancora più buio quando il fanale che i due usano per illuminare la tomba si spacca accidentalmente. Macfarlane e Fettes proseguono la loro opera completamente immersi nelle tenebre e nella terra della tomba. Caricano la salma chiusa nel sacco e, a tentoni, tornano verso il calesse, uscendo dal cimitero e dalla campagna con non poche difficoltà. Il tutto è immerso in un'atmosfera gotica, dark, quasi fossero degni compagni di "Frankestein" di Mary Shelley.


Eppure quella salma, che continua ad essere sballottata, ha un peso eccessivo per essere quella di una donna. Macfarlane ferma il calesse, prova ad accendere l'altro fanale e illumina il carico: con orrore, i due notano che si tratta di un uomo, nonostante fossero certi che il corpo esumato fosse quello di una donna. Macfarlane, terrorizzato, illumina meglio e... entrambi scoprono di essere di fronte al corpo di Gray, già morto e sezionato da tempo. Il fanale cade a terra, si rompe, il cavallo si imbizzarisce e parte in direzione Edimburgo con il defunto a bordo, lasciando i due in mezzo alla campagna.

Di Stevenson ho letto "Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde" quando ero solo un'adolescente. Non ricordo bene i dettagli, ma certamente l'inquietudine che mi suscitò leggerlo, pensando al disturbo psichico tipico del bipolarismo.
Più noto è "L'isola del tesoro", che manca ancora tra le mie letture; tuttavia, all'interno del libriccino è inserito anche un piccolo racconto, in cui due dei personaggi, ovvero Sylver e Smollett, escono dalla narrrazione, in una pausa dello scrittore, riprendendo a "recitare" quando Stevenson afferra nuovamente la penna per scrivere.
Gli altri testi sono definiti "Favole" e, in realtà, sia per la lunghezza che per la presenza di una morale, spesso molto cinica, sembrano proprio riflettere il celebre genere letterario.

Logicamente, "Il trafugatore di salme" occupa un posto primario. Secondo l'introduzione critica, è un testo che precede "Dr. Jekyll e Mr. Hyde", una sorta di prova. Sicuramente Stevenson intende qui infondere nel lettore quel senso di paura che striscia nell'animo, risvegliando anche quegli istinti primordiali e crudeli. Fettes, che di fatto è solo un ubriacone, a contatto con Macfarlane diventa socio in affari, lasciando da parte quel minimo di coscienza, affascinato dal lato oscuro. Eppure, entrambi sembrano terrorizzati dal soprannaturale, come dimostra la sostituzione impossibile del corpo di Gray con quello della signora defunta, gli scricchiolii e il buio che si impadronisce del cimitero di campagna. Stevenson è sicuramente un maestro delle descrizioni che definirei assai minuziose. Ma la capacità descrittiva, in fondo, è una caratteristica fondamentale, soprattutto se si vuol proporre un testo evocativo, immersivo, che tocca tasti interni all'animo umano, laddove nessuno di noi vuole mai avventurarsi.

domenica 7 gennaio 2024

Recensione di "Oscar e la dama rosa" di Eric-Emmanuel Schmitt

Buonasera amici! Avevo promesso che sarei tornata prestissimo ed eccomi qui! Come detto ieri sera, quello appena passato e quello attuale non sono i più bei periodi che abbia mai vissuto, ma i libri mi hanno aiutata a isolarmi, o meglio, a vivere altre vite, a sognare, a provare nuove emozioni.

Oggi vi porto a conoscere "Oscar e la dama rosa" di Eric-Emmanuel Schmitt":


Trama: Testa Pelata ha dieci anni e il soprannome gliel'hanno dato per via del cranio completamente pelato a causa delle cure per il cancro a cui si sottopone. La sua vita trascorre in ospedale, in un reparto riservato ai bambini con malattie gravi, i suoi unici amici.Soffre, sa che cure e trapianti non hanno avuto buon esito, sa che presto morirà, eppure quello che a prima vista sembrerebbe un quadro funesto si rivela una meravigliosa e movimentata avventura per merito di Nonna Rose, una “dama rosa”, come vengono chiamate le volontarie che prestano assistenza ai degenti, per via, appunto, del camice rosa che indossano. Nonna Rose trasforma gli ultimi dodici giorni di vita del bambino in un’epopea rutilante di avvenimenti, gli fa vivere l’esistenza che non vivrà, lo mette in grado di vedere esauditi desideri che non avrebbe avuto il tempo di desiderare.

In questo periodo terribile, ho percorso le corsie di un ospedale. Il cuore si è stretto quando sono arrivata davanti a un muro cui erano appesi alcuni lavoretti in ceramica dipinta. Gli autori erano dei bambini, malati oncologici, piccole anime senza speranza o la cui vita era appesa a un filo sottile, quasi trasparente. Mi sono detta - e me lo dico sempre in realtà - che non è giusto nascere per morire dopo pochi anni, trascorrendo la propria infanzia tra le bianche mura di un ospedale, impregnate di odore di disinfettanti e medicine, ed essere osservati con pietà dagli adulti, quando adulti quei bambini non potranno mai diventarci. Perché soffrire?
Oscar se lo chiede e lo domanda anche a Nonna Rose, una volontaria che va a trovarlo in ospedale. Il bambino è malato oncologico. Ha subito un'operazione, ma non è andata a buon fine. Proprio quella signora così strana, che per sembrare forte ha raccontato di essere stata una lottatrice di wrestling, restituisce una speranza e un pizzico di fede a Oscar. Il bimbo ha un'aspettativa di vita di una decina di giorni, ormai non potrà più riprendersi, ma Nonna Rose gli dice che ogni giorno lui crescerà di 10 anni. Nonna Rose, di fatto, regala un'esistenza normale a Oscar che diventa quindi adolescente, dà il suo primo bacio a Peggy Blue (la bambina con il colorito blu), fino ad essere adulto e poi anziano. Un'intera vita racchiusa in pochi istanti durante i quali Oscar, sempre su consiglio di Nonna Rose, scrive a Dio, raccontandogli la sua esperienza e chiedendogli sempre di venirlo a trovare. Perché un Dio che ti ama non può farti soffrire così tanto, si dice Oscar. Eppure la sofferenza fa parte della vita. Anche Dio ha sofferto, gli spiega Nonna Rose, un Dio cui l'uomo si sente più vicino.

Foto di Myléne da Pixabay

Attraverso uno stile coinvolgente e molto dolce, tipico delle riflessioni fatte dai bambini, l'autore ci trasporta nel cuore grande di Oscar e di tutti quei piccoli malati terminali per i quali le cose più importanti sono la speranza e la vicinanza delle persone sensibili.

Vi lascio con qualche frase tratta dal libro e vi aspetto con la prossima recensione, sempre qui, tra le pagine virtuali del blog!

«Pensaci un attimo, Oscar. A chi ti senti più vicino? A un Dio che non prova niente o a un Dio che soffre?».
«A quello che soffre, è chiaro. Ma se fossi Dio come lui, se avessi i suoi mezzi, avrei evitato di soffrire».
«Nessuno può evitare di soffrire. Né Dio né tu. Né i tuoi genitori né io».

«La gente ha paura di morire perché teme l'ignoto. Ma l'ignoto, per l'appunto, non si sa cosa sia. Io ti propongo di avere fiducia anziché paura, Oscar. Guarda la faccia di Dio sulla croce: subisce la pena fisica, ma non sente la pena morale perché ha fiducia. A quel punto anche i chiodi fanno meno male. Continua a ripetersi: mi fa male, ma non può essere un male. Ecco qual è il beneficio della fede. Volevo fartelo vedere».

«Ho cercato di spiegare ai miei che la vita è un regalo strano. Da principio la si sopravvaluta, si crede di aver ricevuto la vita eterna. Poi si sottovaluta, la troviamo marcia, troppo corta, si è quasi pronti a buttarla via. Alla fine ci si rende conto che non è un regalo, ma un prestito. Allora si cerca di meritarselo. Ho cent'anni, so di cosa parlo. Più si invecchia, più è necessario avere gusto per apprezzare la vita. Bisogna diventare raffinati, artisti. Qualsiasi imbecille può gioire della vita a dieci o vent'anni, ma a cento, quando non si riesce più a muoversi, bisogna usare l'intelligenza».

sabato 6 gennaio 2024

Recensione di "Cinquanta modi per dire pioggia" di Asha Lemmie

Buonasera e buona Epifania! Eccoci di nuovo qui, su queste pagine virtuali a parlare di libri e lettura.

In questo periodo, come mai prima d'ora, ho imparato a leggere durante gli spazi liberi, quei minuscoli ritagli di tempo il cui segreto sta nel riuscire ad isolarsi dalle chiacchiere, dai rumori, dalle preoccupazioni.
Oggi vi porterò, quindi, in Giappone, nel periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale, con "Cinquata modi per dire pioggia" di Asha Lemmie.


Trama: Kyoto, 1948. Nori Kamiza ha solo otto anni quando viene lasciata dalla madre davanti al cancello di un'enorme villa di proprietà della nonna. Sola e spaventata, la bambina viene accolta in casa, seppur a malincuore. La famiglia Kamiza è tra le più nobili del Giappone, imparentata addirittura con l'imperatore, mentre Nori, con quei capelli crespi e la pelle scura, è il frutto della scandalosa relazione con un gaijin, uno straniero, per di più di colore. Perciò la nonna fa il possibile perché Nori rimanga un segreto ben custodito. La relega nell'attico e la costringe a trattamenti per renderla «più giapponese»: le stira i capelli e la sottopone a bagni nella candeggina per rendere la sua pelle più bianca. Nori impara fin da subito le regole fondamentali: non fare domande, non lamentarsi, non opporsi. Ma tutto ciò che conosce viene sconvolto dall'arrivo di Akira, il suo fratellastro. Nori è certa che Akira la odierà: lui è il legittimo erede della famiglia, lei il marchio d'infamia che lo disonora. Eppure presto si rende conto che Akira non è come gli altri. Akira viene dalla grande e moderna Tokyo e non gli importa nulla né dell'aspetto di Nori né delle regole della nonna. Per lui, Nori è la sua sorellina e l'adora, almeno quanto Nori adora lui. Così, i due diventano inseparabili e Akira mostra a Nori un mondo nuovo. Un mondo in cui, finalmente, lei non è un'intrusa, non è sbagliata. Un mondo in cui il pregiudizio è sconfitto dalla forma più pura d'affetto: quello che non chiede nulla in cambio. Un mondo in cui anche lei ha il diritto di essere felice. Tuttavia ogni cosa ha un prezzo. E la libertà di Nori potrebbe richiederne uno altissimo...

Foto di G Poulsen da Pixabay

Ho acquistato questo libro all'aeroporto di Catania, dopo tre quarti d'ora di attesa ai metal detector e un ritardo infinito del volo per tornare a Roma. Mi sono rifugiata all'interno del negozio che vendeva libri, cartoleria e souvenir, uscendone con "Cinquanta modi per dire pioggia" di Asha Lemmie e il commesso che, facendo lo spiritoso, mi ha detto "Bello questo libro! Alla fine muoiono tutti!".
Non muoiono tutti, ma c'è una bella dose di sofferenza tra le pagine di questo volume.

Noriko Kamiza ha gli occhi orientali e ambrati, la pelle scura e i capelli ricci. Una giapponese molto atipica si direbbe, eppure lei è la secondogenita, frutto dell'amore di Seiko Kamiza, principessa cugina dell'imperatore, e di James, soldato afroamericano. Frutto, perciò, dell'adulterio, una maledizione, come rivelano le sue caratteristiche fisiche.
È Seiko a lasciarla, dopo una vita dolorosa, davanti casa della nonna materna, Yuko Kamiza, sparendo per sempre. Nori è una bambina molto dolce e obbediente, ma sua nonna le riserva un trattamento che sarebbe eufemistico definire "tortura": dai bagni con la varechina per schiarire la pelle, alle percosse, per non contare il fatto che per anni Nori venga relegata nella soffitta, senza poter mai uscire, nemmeno nel giardino dell'immensa dimora.
Nori vive come una prigioniera, lei che è una vergogna per la casa reale, fin quando non arriva Akira, il suo fratellastro, primogenito di Seiko, erede dei Kamiza. Nori si avvicina con curiosità e timore: lei, una maledizione, non può di certo competere con Akira... eppure il fratellastro non è come gli altri della sua famiglia. È buono, generoso, possiede una mentalità aperta per l'epoca e sarà grazie a lui che le catene di Nori inizieranno a sciogliersi, per riacquistare infine una libertà insperata.

La libertà, però, ha un prezzo alto da pagare per una mezzosangue. Yuko e suo marito non lasceranno di certo che Noriko possa infangare la loro casata. Dopo aver subito crudeltà inaudite, Nori riesce a sopravvivere, vede il mondo, si immerge nella musica che il fratello le ha insegnato ad amare e, quando finalmente, dopo una dolorosissima perdita sembra tutto andare per il verso giusto, l'ombra dei Kamiza si riaffaccia, riportando Noriko verso il suo destino. Nori, però, è cresciuta, conosce le proprie responsabilità e il sacrificio. Sua nonna, pur avendola sempre disprezzata, dovrà infine ammettere di avere davanti a sé una degna rivale.


Ho trovato questa storia affascinante e dolorosa al tempo stesso: affascinante perché narra della rinascita di Noriko, una rifiutata, una mosca bianca; dolorosa, perché non si può nemmeno immaginare fin dove possa spingersi l'odio verso un altro essere umano, per di più per questioni di superstizione e di onore. Noriko viene forgiata come una guerriera, abituata a sopportare, ad obbedire anche quando la realtà è veramente terribile, ma mai perde la sensibilità, il coraggio, l'animo dolce e puro che aveva caratterizzato quella bambina dagli occhi ambrati lasciata da sola davanti la grande e austera dimora dei nonni.
Il ritmo narrativo è incalzante e spinge a volerne sapere sempre di più, a capire che cosa farà e come si comporterà la protagonista nell'immediato futuro. Talvolta, viene utilizzato un cambio di narratore, per fornire al lettore un punto di vista diverso, ben inserito all'interno della storia.
E poi, come sfondo, c'è il Giappone: un paese dalle tradizioni millenarie, appena uscito sconfitto dalla guerra che, tuttavia, non si arrende, proprio come i suoi abitanti, dotati di una forza d'animo surreale e da un senso dell'onore che, per noi occidentali, forse è totalmente sconosciuto. A questo si dovrà, però, aggiungere come si evidenzi il ruolo della donna, considerata un oggetto da far sposare, da lasciare nell'ignoranza, utile solamente a procreare e di cui abusare, ma mai adatta a comandare o ad occupare ruoli di spicco nella società. Mentalità, questa, che in alcuni paesi (e in alcuni ambienti) sembra ancora essere radicata.
Asha Lemmie ha fatto un ottimo lavoro e spero vivamente in un secondo volume.

Vi lascio con qualche frase tratta dal romanzo e vi aspetto, a breve, con la prossima recensione!



«Le piaceva dormire, anche se spesso non ci riusciva. Era un momento in cui provava qualcosa che, da sveglia, le veniva negato sempre: la libertà».

«Bisogna essere forti per sopravvivere. Se non altro, nonna, questo me l'hai insegnato».
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