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domenica 24 marzo 2024

Recensione di "Terapia di coppia per amanti" di Diego De Silva

Buongiorno e buona domenica, amici lettori! In questa primavera ballerina, che alterna diluvi a giornate di sole caldissime, non manchiamo mai di dedicarci alle nostre letture!

Quale libro mi ha fatto compagnia su bus e metro nel mezzo del traffico di Roma? Saltando la pila dei romanzi in attesa ed entrando da Mondadori, mi ha ispirato la copertina di un libro di Diego De Silva, autore che conosco per altre sue opere già recensite ("Mancarsi" e "La donna di scorta", così come per le storie dell'avvocato Malinconico che, volutamente, non ho iniziato perché non sto dietro alle "serie"): "Terapia di coppia per amanti", da cui è stato anche tratto un film uscito negli anni passati:



Trama: Due adulti sposati (non tra loro) si ritrovano uniti da una passione incontrollabile e da un amore coriaceo, particolarmente resistente alle intemperie. Viviana è sexy, vitale e intrigante, e ha un notevole talento per i discorsi intorcinati. Modesto è meno chic, ma abilissimo nell'autoassoluzione. Moderatamente vigliacco, aspirerebbe alla prosecuzione a tempo indeterminato della doppia vita piuttosto che a un secondo matrimonio, visto che già il suo non è che gli piaccia granché. Ma Viviana, nella crucialità del dilemma, trascina Modesto dall'analista, alla ricerca di una possibilità di salvezza per il loro rapporto ormai esasperato da lacerazioni continue. Un romanzo a due voci, maschile e femminile, che si alternano a raccontare la loro storia mentre la vivono e ci trascinano in un'immersione nelle complicazioni dei sentimenti, nei conflitti che apriamo continuamente per la paura di affidarci all'amore e dargli mandato a cambiarci la vita.

Viviana e Modesto, una coppia fantastica, ironica, passionale... peccato che i due non siano sposati tra loro, ma siano amanti da qualche anno. Entrambi hanno una doppia vita e i rispettivi partner sembrano non costituire una presenza ingombrante. Nessuno fa scenate, nessuno chiede troppo. Segnale di cosa? Di due matrimoni che, alla fine, non sono andati così bene e, purtroppo, della mancanza di coraggio sia da parte dei protagonisti, che dei partner nel dire "basta così", nel restituirsi libertà a vicenda.
Davanti un matrimonio di facciata, dietro il tradimento nemmeno tanto celato.
Ma cos'è che sia Viviana che Modesto hanno trovato nella loro relazione clandestina? Proprio ciò che manca a numerosi casi matrimoniali, che finiscono per essere opprimenti: la libertà di vivere appieno un amore senza essere giudicati, senza impegni di coppia, senza doveri. C'è solo quella voglia di stare insieme e di amarsi. Una libertà che, in realtà, si dovrebbe sempre riservare anche in coppia "ufficiale", senza far subentrare la tanto odiosa routine, o l'obbligo verso l'altro. Bisognerebbe dire più "non mi va di fare questo o quell'altro", bisognerebbe lasciare più spazio alla sorpresa e alla curiosità.

Foto di StockSnap da Pixabay

"Terapia di coppia per amanti" non ha la pretesa di essere un libro dalla trama profonda e, infatti, non lo è, ma l'autore si cala sia nella parte dell'uomo, che della donna, riuscendo a riflettere pensieri e preoccupazioni che affliggono ognuno dei due.
Mentre Modesto, pur provando amore nei confronti di Viviana, non è propenso a dimostrarlo così apertamente, buttando tutto nell'ironia (compulsiva), Viviana invece è sensibile ai dettagli, vorrebbe una stabilità per questa relazione e si fa influenzare persino dai sogni. Infatti, è proprio dopo un sogno, che Viviana decide di portare Modesto dall'analista. Un analista che, ironia della sorte, a sua volta ha una giovane amante e che, per tale motivo, vede riflessa la propria situazione in quella di Viviana e Modesto.
Il dubbio che rimane alla fine della storia è sempre quello classico: perché non mollare la propria fallimentare situazione matrimoniale per ritrovare felicità senza doversi nascondere? Oppure: è proprio impossibile ricucire una situazione famigliare alla deriva, soprattutto in presenza di figli, dando un taglio netto al tradimento?

Da lettrice, non me la sento di dare un giudizio. Di situazioni simili ne esistono a miliardi sin dagli albori della civiltà, però posso esprimere il mio pensiero. Considerando litigi e malumori che, spesso (e lo leggiamo quasi ogni giorno), portano a situazioni spiacevoli, anche mortali, direi che se un matrimonio finisce, è bene farlo finire. I figli capiranno e si adatteranno, ma nessuno deve fare il "martire" di un legame affettivo finito, o malato. L'amore è libertà: quando ci si ritrova incastrati al fianco di una persona per cui non si prova più nulla, è giusto andare ognuno per la propria strada, nel rispetto delle singole personalità.

La lettura è consigliata se non la prendete troppo sul serio e avete voglia di un po' di ironia.


mercoledì 6 marzo 2024

Recensione di "Quando spunta la luna a Marechiaro ti uccido" di Antuàn Duanèl

Buongiorno amici lettori e bentornati sul blog Sàkomar!

Lo sentite quel tepore primaverile? Io sì, finalmente... per me l'inverno è sempre troppo lungo, anche se porta con sé tante letture fatte con un bel plaid caldo sulle gambe.
Oggi vi porto a conoscere il libro di un esordiente, Antuàn Duanèl (nome d'arte ovviamente), che si è cimentato nella scrittura di un poliziesco, con scena del crimine piuttosto cruento e tanto humor.


Trama: Un noir, un giallo, un rosa (scegliete voi il colore che vi più piace) ambientato in una Napoli fredda e piovosa come non mai, alla vigilia delle elezioni politiche del 2006. Un mix di Comix e Crime all’insegna del politically uncorrect. Dicembre 2005. Una pioggia incessante bagna Napoli. E, mentre fervono i preparativi natalizi e quelli elettorali, un serial killer, tornato dal nulla, terrorizza la città. È ossessionato dai riflessi della luna sul corpo delle sue vittime, tutte giovani donne bionde, che mutila orrendamente per darle la forma di una stella. Le indagini sono affidate, solo per caso, alla giovane e inesperta commissaria di Fusco, che dirige la sezione più stravagante della polizia di Napoli: la Sezione Delitti Irrisolti. Ad aiutarla, Salvatore Capuano, un viceispettore corrotto e senza scrupoli, che ha deciso però di cambiare vita e di ricominciare daccapo proprio a Napoli. Ma non è finita qui. La polizia è in allarme per la probabile presenza a Napoli di Houdini, un inafferrabile ladro internazionale, che da anni si fa beffa di tutti i più sofisticati sistemi di sicurezza e ruba preziosi gioelli in tutto il mondo, senza lasciare alcuna traccia. A Napoli, in quei giorni, si tiene un’importante mostra di gioielli e si teme che la cosa possa far gola al geniale Houdini. Inspiegabilmente, anche il compito di fermare Houdini è affidato alla commissaria di Fusco che così, da quasi disoccupata, passa, improvvisamente, ad occuparsi dei più importanti fatti di cronaca nera, che tengono tutta la città col fiato sospeso. Lei, consapevole che le indagini assegnategli solo per errore, le saranno presto tolte, lotta contro il tempo e passa giorno e notte alla caccia dello spietato assassino seriale e dell’ affascinante ladro gentiluomo. Nel frattempo, tra un omicidio e l’altro, la commissaria di Fusco, refrattaria al matrimonio e single convinta, dovrà venire anche a capo dei suoi molti corteggiatori e dei suoi amori che si ripresentano dal passato. Sullo sfondo la città di Napoli bella e dormiente.

L'autore mi ha contattato, qualche mese fa (purtroppo, o per fortuna, ho tanti libri in attesa sul mio comodino), per farmi conoscere il suo libro.
Il poliziesco, il giallo e il noir non sono proprio i miei generi e lo avrete capito se seguite il mio blog. Dovendo affrontare un mondo che proprio roseo non è, almeno nella lettura, vorrei estraniarmi e leggere cose belle, motivo per cui mi dedico solo a ciò che può infondermi un po' di buon umore, oppure di sentimenti profondi.
Veniamo a noi. Il romanzo è ambientato a Napoli, città che ho visitato più volte nell'arco della mia vita, da scolaretta, da universitaria, da turista e, nonostante sia indubbiamente caotica, l'ho trovata affascinante. I suoi punti forti? Il mare, i vicoletti, i monumenti, il buon cibo, l'allegria. Insomma, a Napoli non manca proprio niente e tanto più alla Napoli di Antuàn, in cui gira persino un serial killer innamorato delle stelle, tanto da fare a pezzi donne bionde disponendone i resti come astri.


Il caso è affidato al commissario Francesca Di Fusco, donna con un bel carattere (che deve possedere, anche per il solo lavoro che svolge), affascinante, e allo stesso tempo molto fragile. Francesca è a capo della sezione Delitti Irrisolti, dove viene affiancata dal viceispettore Capuano, trasferitosi da poco a causa di altre sue vicende lavorative. E' risaputo, però, che la sezione sia in realtà il "Reparto Zero", quel luogo in cui finiscono tutti i casi di cui è impossibile occuparsi, una sezione della Polizia di Stato ritenuta quasi del tutto inutile.
Eppure il killer, dopo un periodo di silenzio, sembra essere tornato alla carica, effettuando persino telefonate preliminari a Francesca prima di uccidere un'altra donna. Il misterioso uomo non lascia traccia, ma il delitto perfetto non esiste... un minuscolo indizio riuscirà a far sì che il commissario Di Fusco, aiutata dal suo promesso sposo, Daniel, ladro imbranato (ebbene sì, un ladro...), possa giungere alla conclusione del caso.


Devo dire che "Quando spunta la luna a Marechiaro ti uccido" è stata una bella scoperta. Antuàn spicca per umorismo, i personaggi sono ben costruiti e, anche in situazioni critiche, riescono comunque a generare una risata. Lo svolgimento della storia, se in un primo momento può sembrare prevedibile, alla fine rivela un bel colpo di scena.
Consigli? Sì, che forse sono anche da considerare come critiche costruttive. Eviterei davvero di inserire la politica all'interno della narrazione, o di inserirla, ma in modo più generico. "Politicizzare" i personaggi rischia di abbassare il livello qualitativo del romanzo, che invece merita per il ritmo con cui è costruito.
Riguardo l'impostazione, revisionerei i dialoghi. Avrei forse scelto delle virgolette uncinate, piuttosto che il trattino. A volte, infatti, risulta visivamente complicato capire il distacco tra dialogo e ripresa del narratore. Allo stesso modo, ridurrei l'interlinea, adottando un'impaginazione differente.

Faccio un grande augurio ad Antuàn Duanèl, spingendolo a continuare nella scrittura e a migliorarsi ad ogni passo!

mercoledì 14 febbraio 2024

Recensione di "Giuda Iscariota e Maria Maddalena" di Kahlil Gibran

Buonasera a tutti e bentornati sul blog! Oggi è il 14 febbraio e, per chi è credente, è anche mercoledì delle ceneri, giorno di inizio della Quaresima.
Si tratta di un caso, ma proprio stamattina - durante uno spostamento in bus - ho terminato di leggere un testo di Kahlil Gibran: "Giuda Iscariota e Maria Maddalena", edito da Edizioni San Paolo, per la collana "Sette minuti per lo spirito".


Ho individuato questo libriccino, di appena 31 pagine, mentre passeggiavo all'interno di una delle librerie religiose in via della Conciliazione di cui ero assidua frequentatrice quando ero studentessa presso l'Università Roma Tre e preparavo gli esami di Storia del Cristianesimo, o di Letteratura cristiana antica. Mi è andato all'occhio il nome di Gibran, di cui ho già letto tre libri (Il Profeta; Il giardino del Profeta; I segreti del cuoreAli Spezzate), e l'accostamento di due personaggi evangelici così controversi: Giuda Iscariota e Maria Maddalena.

Giuda Iscariota è il traditore per eccellenza, ma Gibran ci mostra un uomo di cui i Vangeli non narrano. Giuda di Gibran è un discepolo che ammira Gesù, lo seguirebbe in capo al mondo perché è il Messia, ma al contrario di quanto lui aveva inteso non libererà il popolo dal dominio romano. Gibran inserisce Giuda e Gesù nel contesto storico di quel tempo, un periodo in cui la Giudea era sede di rivolte capeggiate da uomini che si professavano "Messia", liberatori dal giogo imperiale. Basti pensare all'ultima rivolta giudaica del 135 d.C., capeggiata da Simon Bar-Kokhba, il "figlio della stella", soppressa poi dall'Impero.

Cimabue, Public domain, da Wikimedia Commons

Il Giuda di Gibran non capisce immediatamente che Gesù si riferisce a un mondo altro, un mondo non terreno. Gesù parla dello spirito, Giuda si interessa di ciò che è terreno e finirà deluso. Consegna Gesù in mano ai nemici, vendendolo, perché le sue speranze erano state disattese. L'amarezza accumulata da Giuda condusse alla morte Gesù che, tuttavia, pur in punto di morte, continuava a parlare di perdono e di amore. Furono queste le ultime frecce lanciate al cuore indurito di Giuda che, solo dopo la morte di Gesù, capì di aver commesso un tragico errore e decise perciò di raggiungerlo, di chiedere scusa e di farsi perdonare, pur morendo da assassino e da suicida. Sapeva, nel suo cuore, che Gesù lo avrebbe perdonato.

Tiziano Vecellio, Public domain, da Wikimedia Commons

L'altro personaggio è Maria Maddalena, donna di cui tanto si è parlato, soprattutto in seguito al fenomeno Dan Brown. La Maria di Magdala nominata da Gibran è la prostituta. Come può una persona del genere diventare discepola di Gesù? Una donna dall'animo sporco, una peccatrice? Eppure, nulla di più vero: Gesù si rivolgeva in primis ai deboli, agli ultimi, e ciò non deve quindi sorprenderci.
Gesù si reca più volte nel giardino della Maddalena, ma nonostante lei lo inviti e ne rimanga ammaliata, egli non entra in casa. Qualche scambio di parole fa comprendere alla donna che Gesù è diverso: non vede il suo aspetto fisico, ma scorge il suo cuore, un cuore che nessuno era mai riuscito a vedere oltre il corpo, usato e abusato. Maria Maddalena diventa poi una delle testimoni della Resurrezione di Cristo. Mai esiterà nel comunicare ciò che sa: è risorto e tanto basta.

Gibran cosa fa? Prende i due peccatori e ne scrive la storia "celata" all'interno dei Vangeli, dà voce ai personaggi più umani e vicini a noi, ma secondari, senza i quali nulla di ciò che conosciamo sarebbe, però, avvenuto. Ovviamente l'autore narra nel suo classico stile, leggero e poetico, quasi profetico.

"Giuda Iscariota e Maria Maddalena" è un libriccino da leggere, a mio avviso, sia per chi è credente che per tutti gli altri. Si tratta, se volete, di una storia e del profilo di due dei personaggi più umani e vicini a noi che la letteratura antica potesse ospitare tra le sue pagine.

Vi aspetto sempre qui con la prossima recensione!

domenica 4 febbraio 2024

Recensione di "Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano" di Eric-Emmanuel Schmitt

Buonasera e buona domenica, amici lettori! È così bello per me tornare sul blog un po' più di frequente. Significa che leggo molto e, quindi, rispetto i libri.

Oggi vi porto a Parigi, a Rue-Bleue, dove vive Mosé, un ragazzino ebreo, e dove lavora monsieur Ibrahim, il cosiddetto "arabo", che in realtà è solo musulmano.


Trama: Nel breve intreccio di strade di un popolare quartiere parigino dove i nomi delle vie hanno il sapore delle favole (rue Bleue, rue de Paradis), l'adolescente Momo vive con un padre sprofondato in una silenziosa e fosca depressione. Nello stesso quartiere vive anche monsieur Ibrahim, l'unico arabo in una via "ebrea", titolare della drogheria dove Momo si reca a fare la spesa quotidiana e non esita ogni tanto a sgraffignare qualche scatoletta di conserva... "È solo un arabo, dopo tutto!" pensa Momo, e, con suo grande stupore, il vecchio Ibrahim sembra leggergli nel pensiero: "Non sono arabo, vengo dalla Mezzaluna d'Oro". Così comincia la storia d'amicizia, intessuta di ironia, candore e profonda saggezza, del ragazzo ebreo e dell'anziano "arabo" nell'incanto di un angolo di mondo nel quale le puttane sono belle e cordiali e si accontentano di un orsetto di peluche in cambio dei loro favori e dove, come portata da un sogno, compare addirittura Brigitte Bardot. Come in una favola o un apologo che non pretende di dare lezioni morali ma soltanto proporre un sogno da decifrare, i due protagonisti si incamminano verso il grande mondo, acquistano un'auto che nessuno dei due sa guidare e si dirigono verso Oriente, oltre Istanbul, verso una libertà che li fa inerpicare verso l'alto, guidati da quell'arte di sorridere alla vita racchiusa nei preziosi fiori del Corano.

L'incipit lascia già senza fiato per la sua brutalità: «A undici anni ho rotto il porcellino e sono andato a puttane».
Un bambino di 11 anni che va con le prostitute, quando quella è ancora l'età dei giochi e della spensieratezza. Ma di Mosé si saprà qualcosa solo leggendo le pagine, andando avanti.
Mosé è stato abbandonato dalla madre alla nascita e affidato al padre, un avvocato, che non sembra interessato a lui e che riesce a fare paragoni solo con il figlio maggiore, Popol, andato via con la moglie tanti anni prima. Mosé è una creatura invisibile, un bambino alla disperata ricerca di amore.
Ogni giorno si reca alla drogheria di monsieur Ibrahim, chiamato l'arabo: è qui che compra qualcosa con i pochi soldi che il padre gli dà per fare la spesa, ma spesso ruba delle scatolette. Mosé e Ibrahim si parlano poco, poi sempre più spesso, finché tra i due non nasce una certa amicizia. Scopriremo che Ibrahim non è arabo, ma musulmano e ha un negozio sempre aperto; Mosé, che Ibrahim chiamerà Momo, si affeziona e chiede a Ibrahim tutto ciò che, in teoria, avrebbe dovuto chiedere a suo padre.

Foto di StockSnap da Pixabay

Il bambino impara così a sorridere, a stringere un rapporto con altri ragazzi della sua età, a sentire un pizzico di felicità anche quando la vita gliene concede molto poca. E Ibrahim, il musulmano, diviene di fatto il padre adottivo del ragazzo. Anche quando tutto va in frantumi e l'esistenza di Mosé viene nuovamente sconvolta, è monsieur Ibrahim a prendersi cura di lui. Insieme viaggiano attraverso l'Europa, diretti a Istanbul e il loro legame si fa sempre più bello, esattamente come quello di un padre con un figlio. E il compito di un genitore è proprio quello di accompagnare il proprio figlio durante il viaggio, lasciandogli a un certo punto la mano quando ormai è in grado di cavarsela da solo.
Ma da dove deriva tutta la saggezza di monsieur Ibrahim? Questo personaggio dice sempre di conoscere ciò che c'è nel suo Corano, che forse non corrisponde esattamente al libro, ma al proprio cuore.

Soprattutto in un momento come questo, in cui le guerre imperversano, questo romanzo di Schmitt ha molto da insegnare. Cosa importa essere nati ebrei, o musulmani? O cristiani? O buddisti? Non è la nostra fede a dirci chi siamo, ma il nostro cuore. Mosé ha scelto Ibrahim come padre e Ibrahim ha scelto Mosé come figlio. Non avrebbero potuto essere più differenti, ma tant'è. Quale ruolo ha la fede religiosa dei due? Nessuno, assolutamente nessuno. Ha importanza il loro ruolo come esseri umani, che si rispettano e si amano.
Schmitt si focalizza anche su un altro punto: quello dell'amore assente e dell'amore presente. Un bambino, senza una guida, cerca amore anche dove non dovrebbe. Triste è doverlo pensare a ricercare abbracci e baci nei letti delle prostitute, cui lui ingenuamente regala il proprio orsetto. Un orsetto che simboleggia la fanciullezza, l'innocenza buttata via.
E ancora, si vuol sottolineare la difficoltà di essere genitori. Non tutti riescono a mantenere un impegno che, prima di essere biologico, coinvolge l'animo.
Infine, Schmitt restituisce una speranza a Mosé tramite l'incontro con Ibrahim. Il bambino impara a sorridere, lui che non sapeva nemmeno come si facesse. Con il sorriso, il mondo sembra meno minaccioso e il prossimo meno crudele.
Un libro da leggere per imparare qualcosa, o sarebbe meglio dire, molte cose importanti.
Vi lascio con alcune frasi e vi aspetto alla prossima recensione!

P.S. di questo libro è stato girato un film. Se siete curiosi, guardate qui: (link)

Immagine tratta dal film

«È troppo bello qui, monsieur Ibrahim, davvero troppo bello. Non è per me, non me lo merito»
Monsieur Ibrahim ha sorriso.
«La bellezza è dappertutto, Momo. Dovunque tu giri lo sguardo. È scritto sul mio Corano, questo.»

«Tuo padre non aveva modelli. Ha perso i suoi genitori da piccolo, presi dai nazisti e morti in un campo di concentramento. Tuo padre non aveva mai superato il fatto di essersi salvato. Forse si sentiva in colpa per essere rimasto vivo [...].»

«Ferma la macchina. Lo senti? C'è odore di felicità, è la Grecia. Le persone se ne stanno immobili, si concedono il tempo di guardarci passare, respirano. Vedi, Momo, nella mia vita avrò anche lavorato molto, ma ho lavorato lentamente, prendendomi il mio tempo, senza dannarmi l'anima per incassare di più o accaparrarmi i clienti, no. Il segreto della felicità è la lentezza, proprio così. [...]»

venerdì 2 febbraio 2024

Recensione di "La libreria del Signor Livingstone" di Mónica Gutiérrez

Buonasera a tutti, amici lettori! Eccoci ritrovati qui in questo piccolo spazio virtuale che echeggia memorie della mia bella Sàkomar (per chi non sapesse di cosa parlo, provate a dare uno sguardo qui: link).

Dove vi porto oggi? A Londra. Ci siete mai stati? Io no, ma è una meta che ho sempre sognato di visitare, frutto del mio amore per la letteratura e la lingua inglese che, ai tempi d'oro liceali, mi avevano decisamente stregato.


Trama: A guardar bene, in fondo a una stradina di Londra, si può scorgere una palazzina su due piani tutta in legno dipinto di blu. Dietro le vetrine, pile e pile di romanzi. Aprendo la porta dalla curiosa maniglia a forma di penna, si incontra il signor Edward Livingstone, l'anima della libreria Moonlight Books. A prima vista può sembrare un po' burbero, ma non fateci troppo caso. Lo fa solo perché preferisce la compagnia dei libri a quella delle persone. Eppure, nessuno riesce a capire i bisogni dei lettori meglio di lui. Come quelli di Oliver, che, a otto anni, è un bambino prodigio, e passa in libreria molto del suo tempo, per non sentirsi solo; o Sioban, che tra quegli scaffali cerca l'ispirazione per un nuovo romanzo di cui ha perso le parole. Soprattutto, il signor Livingstone è stato capace di leggere nel cuore di Agnes. Un cuore un po' malandato che aveva deciso di chiudere le porte al mondo. Fino al magico giorno di pioggia in cui Agnes trova riparo alla Moonlight Books. È così che, tra i sussurri dei più bei versi mai scritti, Agnes scopre che la speranza di una vita migliore non deve mai morire. Che le strambe figure che abitano la libreria hanno l'immenso potere di farla sentire al sicuro. Perché il signor Livingstone ha riempito il suo negozio di generosità e di amicizia: all'avventura e agli imprevisti ci pensano i libri, con le loro storie che non smetteresti mai di leggere.

Non appena ho iniziato a leggere questo libro, che tanto mi aveva ispirata in libreria, mi è sembrato di avere sotto gli occhi la mia storia. Agnes è un'archeologa, una povera, triste e talentuosa archeologa spagnola, alla ricerca disperata di un lavoro (e di sé stessa), con il sogno di essere un giorno assunta al prestigioso British Museum.
Durante una giornata di pioggia, Agnes trova riparo all'interno di una libreria, la Moonlight Books. Il proprietario, Edward Livingstone, sembra un burbero signore uscito da un romanzo, gli occhiali inforcati, la pipa in bocca, parente del noto David Livingstone, di cui tiene il prezioso diario in una teca di vetro. Il locale, pieno zeppi di libri, è "abitato" da altre creature: uno scrittore residente che, sotto una lampadina blu, scrive romanzi; un bambino biondo di nome Oliver Twist, appassionato di stelle, che ama Peter Pan e il suo telescopio, puntato verso il cielo stellato visibile dal lucernario della libreria; Sioban, compagna di Edward, cui non manca mai un sorriso. E ovviamente, in perfetto stile "British", nella bellissima Moonlight Books non può mancare l'angolo romantico, dove si può sorseggiare un buon té in compagnia di un libro.

Foto di Emre Can Acer (https://www.pexels.com)

Agnes entra così in un mondo fatato, impressionata dai volumi e da quel luogo così accogliente. Edward, dal canto suo, sta cercando un'assistente e vede in quella "fatina dai piedi scalzi" (Agnes, infatti, bagnata dalla pioggia, era entrata togliendosi le scarpe) la persona ideale. L'archeologa ha un'opportunità per rimanere ancora a Londra e cercare il lavoro dei suoi sogni.
Tra acquirenti del tutto inusuali, letture di Peter Pan sottovoce in perfetta modalità "Wendy e i bambini sperduti", té aromatizzati e la caccia al ladro del diario di David Livingstone, Agnes troverà nella libreria Moonlight Books una seconda famiglia, in grado di accoglierla, proteggerla, curare le ali ferite e aiutarla a riprendere il volo verso il suo più grande sogno.
In tutto ciò, come nelle più belle fiabe, l'amore non è secondario: l'archeologa e l'ispettore Lockwood dagli occhi blu faranno sognare chiunque creda ancora nella magia dei sentimenti.

Foto di Vlada Karpovich (https://www.pexels.com)

Sarà perché Agnes è un'archeologa e, come me, disperata, con un pesante bagaglio di sogni infranti, che ho davvero amato questo libro. E sì, esattamente come lei, lavorerei molto volentieri in una libreria magica come la Moonlight.
Per il resto, la costruzione del personaggio di Edward Livingstone è, secondo me, la più interessante perché si tratta di uno scorbutico dal cuore tenero, un po' Ebenzer Scrooge e un po' Sherlock Holmes, ironico e pungente, difensore dei deboli, amante della letteratura e dei libri illustrati.
Se avete voglia di una fiaba moderna e dolce, proprio come un té inglese accompagnato da qualche biscotto, leggete il libro di Mónica Gutiérrez e non ve ne pentirete.

Vi lascio con qualche frase estratta dal libro e vi aspetto con la prossima recensione!

Foto di cottonbro studio (https://www.pexels.com)

«I libri non sono il nostro lavoro, sono la nostra vita. Da quando in qua vivere produce vantaggi economici?»

«Non dovrei neanche essere qui. Io sono un'archeologa.»
«È per questo che sei triste?»
«Non sono triste.»
«Se dico che sono un astronauta e resto sul pianeta Terra, mi deprimerò, perché che razza di astronauta non esce dal suo quartiere?» le spiegò pazientemente Oliver.
«Uno molto frustrato», borbottò di cattivo umore Agnes.
«Parli come la mia psicopedagoga.»
«Si sentirà così anche lei.»
«Il trucco è non dire "sono un'archeologa" o "sono un astronauta". Tu sei molte cose: una persona, l'aiutante del signor Livingstone, una bella ragazza...»
«Grazie.»
«... una brava lettrice di Peter Pan, una ragazza simpatica, sveglia... E tutte queste cose ti riescono benissimo. Non dovresti essere triste.»

«Non sapevo di essere triste», riepilogò, «ma forse in effetti lo sono. Non trovo il mio posto nel mondo, come se fossi un astronauta disperso nell'universo con una gran voglia di tornare a casa.»
«Allora io non mi preoccuperei.» [...]
«E perché?»
«Perché prima o poi arriva sempre qualcuno che ti vuole riportare a casa.»

«Ho degli amici innamorati dell'idea di innamorarsi, ma non riescono ad andare oltre la teoria», rifletté Jasmine nell'oscurità. «Altri non sanno stare soli e si convincono che ogni nuovo partner è quello perfetto e definitivo. Ma secondo me l'unica cosa perfetta è l'inizio di una storia d'amore, il momento in cui ci si guarda negli occhi e si capisce che la ricerca è finita, perché ormai ci si è trovati. La fine dell'attesa, quando tutto si risolve.»

«Esistono baci capaci di fermare il mondo. Paralizzano l'aria attorno, congelano il tempo e lasciano in sospeso il pensiero. La vita stessa ammutolisce, timorosa di spezzare con il suo palpito l'incantesimo di un così straordinario incontro. Solo i bambini che un tempo applaudivano forte perché credevano nelle fate possono capire da grandi che esistano baci così, capaci di trattenere il tempo.»

sabato 20 gennaio 2024

Recensione di "Il trafugatore di salme" di Robert Louis Stevenson

Buongiorno amici lettori e bentornati sul mio blog!
Dove vi porto oggi? A conoscere alcuni brevi racconti di Robert Louis Stevenson. Se state facendo una faccia sorpresa, sappiate che nemmeno la sottoscritta ne sapeva nulla. Durante una mattinata di qualche mese fa, sono entrata - non per caso - all'interno della libreria "Libraccio" in via Nazionale, a Roma. E qui, su un tavolino, si trovavano una serie di libriccini, tra cui "Il trafugatore di salme" di Robert Louis Stevenson. Incuriosita da questo libretto azzurrino, ho deciso di fermarmi a sfogliarne qualche pagina, fino al suo acquisto.
Nonostante esista una introduzione, ho preferito leggere direttamente il racconto, tornando poi su di essa solo al termine.



ATTENZIONE: SPOILER

Nel locale "George" di Debenham, un gruppo di uomini si riunisce in una notte d'inverno. Ad un certo punto, al suo interno entra "il dottore". Si tratta di Macfarlane, medico, che non passa inosservato agli occhi di Fettes, perennemente ubriaco, ma in quell'istante stranamente lucido. I due hanno uno scambio di battute, ma Marcfarlane sembra in difficoltà. Il dottore, alla fine, esce e Fettes specifica che non era proprio una gran brava persona. Qui si inserisce la narrazione riguardante il passato di Fettes, un tempo aiutante del dott. K., docente di anatomia che, per insegnare la materia, dissezionava cadaveri. Nessuno degli aiutanti doveva domandarsi da dove arrivassero quei corpi, perché con ogni probabilità erano esito di omicidi. Il primo indizio, infatti, apparve davanti gli occhi di Fettes quando, durante una notte, si ritrovò davanti il cadavere di una ragazza che, solo poco tempo prima, aveva visto viva e vegeta. Sul suo corpo spiccavano segni di violenza.
Fettes, inorridito, non si rivolse al dott. K, ma al suo assistente, Macfarlane. Il consiglio fu quello di tacere, nonostante la faccenda fosse poco chiara.

Qualche giorno dopo, i due si ritrovano in un locale, dove Macfarlane è in compagnia di uno sconosciuto, un tipo grossolano, di nome Gray. Questo soggetto deride Macfarlane, sul volto di cui si disegna rabbia, ma la vicenda finisce lì, finché alle quattro del mattino di qualche giorno dopo, Fettes sente bussare alla porta. Macfarlane stava portando un cadavere: quello di Gray.
Lì Fettes capisce che i sospetti sul dott. K erano fondati e Macfarlane era certamente il suo braccio destro nell'esecuzione degli omicidi per far sì che il laboratorio di anatomia fosse sempre provvisto di materiale su cui lavorare. Fettes si ritrova quindi immischiato in una situazione da cui è complicato uscire, preferendo tacere e collaborare, colto talvolta da moti di crudeltà che sembrano impossessarsi di lui. Gray viene quindi sezionato, mentre il dott. K e gli studenti effettuano le loro esercitazioni.

Nel frattempo, era morta anche una signora ed era stata seppellita nel cimitero di campagna. Dovendo rifornire il laboratorio di cadaveri, Macfarlane e Fettes decidono di recarsi nottetempo nel cimitero, dove non li avrebbe visti nessuno e di trafugare la salma. Il viaggio, con il calesse immerso nell'oscurità, diventa ancora più buio quando il fanale che i due usano per illuminare la tomba si spacca accidentalmente. Macfarlane e Fettes proseguono la loro opera completamente immersi nelle tenebre e nella terra della tomba. Caricano la salma chiusa nel sacco e, a tentoni, tornano verso il calesse, uscendo dal cimitero e dalla campagna con non poche difficoltà. Il tutto è immerso in un'atmosfera gotica, dark, quasi fossero degni compagni di "Frankestein" di Mary Shelley.


Eppure quella salma, che continua ad essere sballottata, ha un peso eccessivo per essere quella di una donna. Macfarlane ferma il calesse, prova ad accendere l'altro fanale e illumina il carico: con orrore, i due notano che si tratta di un uomo, nonostante fossero certi che il corpo esumato fosse quello di una donna. Macfarlane, terrorizzato, illumina meglio e... entrambi scoprono di essere di fronte al corpo di Gray, già morto e sezionato da tempo. Il fanale cade a terra, si rompe, il cavallo si imbizzarisce e parte in direzione Edimburgo con il defunto a bordo, lasciando i due in mezzo alla campagna.

Di Stevenson ho letto "Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde" quando ero solo un'adolescente. Non ricordo bene i dettagli, ma certamente l'inquietudine che mi suscitò leggerlo, pensando al disturbo psichico tipico del bipolarismo.
Più noto è "L'isola del tesoro", che manca ancora tra le mie letture; tuttavia, all'interno del libriccino è inserito anche un piccolo racconto, in cui due dei personaggi, ovvero Sylver e Smollett, escono dalla narrrazione, in una pausa dello scrittore, riprendendo a "recitare" quando Stevenson afferra nuovamente la penna per scrivere.
Gli altri testi sono definiti "Favole" e, in realtà, sia per la lunghezza che per la presenza di una morale, spesso molto cinica, sembrano proprio riflettere il celebre genere letterario.

Logicamente, "Il trafugatore di salme" occupa un posto primario. Secondo l'introduzione critica, è un testo che precede "Dr. Jekyll e Mr. Hyde", una sorta di prova. Sicuramente Stevenson intende qui infondere nel lettore quel senso di paura che striscia nell'animo, risvegliando anche quegli istinti primordiali e crudeli. Fettes, che di fatto è solo un ubriacone, a contatto con Macfarlane diventa socio in affari, lasciando da parte quel minimo di coscienza, affascinato dal lato oscuro. Eppure, entrambi sembrano terrorizzati dal soprannaturale, come dimostra la sostituzione impossibile del corpo di Gray con quello della signora defunta, gli scricchiolii e il buio che si impadronisce del cimitero di campagna. Stevenson è sicuramente un maestro delle descrizioni che definirei assai minuziose. Ma la capacità descrittiva, in fondo, è una caratteristica fondamentale, soprattutto se si vuol proporre un testo evocativo, immersivo, che tocca tasti interni all'animo umano, laddove nessuno di noi vuole mai avventurarsi.

domenica 7 gennaio 2024

Recensione di "Oscar e la dama rosa" di Eric-Emmanuel Schmitt

Buonasera amici! Avevo promesso che sarei tornata prestissimo ed eccomi qui! Come detto ieri sera, quello appena passato e quello attuale non sono i più bei periodi che abbia mai vissuto, ma i libri mi hanno aiutata a isolarmi, o meglio, a vivere altre vite, a sognare, a provare nuove emozioni.

Oggi vi porto a conoscere "Oscar e la dama rosa" di Eric-Emmanuel Schmitt":


Trama: Testa Pelata ha dieci anni e il soprannome gliel'hanno dato per via del cranio completamente pelato a causa delle cure per il cancro a cui si sottopone. La sua vita trascorre in ospedale, in un reparto riservato ai bambini con malattie gravi, i suoi unici amici.Soffre, sa che cure e trapianti non hanno avuto buon esito, sa che presto morirà, eppure quello che a prima vista sembrerebbe un quadro funesto si rivela una meravigliosa e movimentata avventura per merito di Nonna Rose, una “dama rosa”, come vengono chiamate le volontarie che prestano assistenza ai degenti, per via, appunto, del camice rosa che indossano. Nonna Rose trasforma gli ultimi dodici giorni di vita del bambino in un’epopea rutilante di avvenimenti, gli fa vivere l’esistenza che non vivrà, lo mette in grado di vedere esauditi desideri che non avrebbe avuto il tempo di desiderare.

In questo periodo terribile, ho percorso le corsie di un ospedale. Il cuore si è stretto quando sono arrivata davanti a un muro cui erano appesi alcuni lavoretti in ceramica dipinta. Gli autori erano dei bambini, malati oncologici, piccole anime senza speranza o la cui vita era appesa a un filo sottile, quasi trasparente. Mi sono detta - e me lo dico sempre in realtà - che non è giusto nascere per morire dopo pochi anni, trascorrendo la propria infanzia tra le bianche mura di un ospedale, impregnate di odore di disinfettanti e medicine, ed essere osservati con pietà dagli adulti, quando adulti quei bambini non potranno mai diventarci. Perché soffrire?
Oscar se lo chiede e lo domanda anche a Nonna Rose, una volontaria che va a trovarlo in ospedale. Il bambino è malato oncologico. Ha subito un'operazione, ma non è andata a buon fine. Proprio quella signora così strana, che per sembrare forte ha raccontato di essere stata una lottatrice di wrestling, restituisce una speranza e un pizzico di fede a Oscar. Il bimbo ha un'aspettativa di vita di una decina di giorni, ormai non potrà più riprendersi, ma Nonna Rose gli dice che ogni giorno lui crescerà di 10 anni. Nonna Rose, di fatto, regala un'esistenza normale a Oscar che diventa quindi adolescente, dà il suo primo bacio a Peggy Blue (la bambina con il colorito blu), fino ad essere adulto e poi anziano. Un'intera vita racchiusa in pochi istanti durante i quali Oscar, sempre su consiglio di Nonna Rose, scrive a Dio, raccontandogli la sua esperienza e chiedendogli sempre di venirlo a trovare. Perché un Dio che ti ama non può farti soffrire così tanto, si dice Oscar. Eppure la sofferenza fa parte della vita. Anche Dio ha sofferto, gli spiega Nonna Rose, un Dio cui l'uomo si sente più vicino.

Foto di Myléne da Pixabay

Attraverso uno stile coinvolgente e molto dolce, tipico delle riflessioni fatte dai bambini, l'autore ci trasporta nel cuore grande di Oscar e di tutti quei piccoli malati terminali per i quali le cose più importanti sono la speranza e la vicinanza delle persone sensibili.

Vi lascio con qualche frase tratta dal libro e vi aspetto con la prossima recensione, sempre qui, tra le pagine virtuali del blog!

«Pensaci un attimo, Oscar. A chi ti senti più vicino? A un Dio che non prova niente o a un Dio che soffre?».
«A quello che soffre, è chiaro. Ma se fossi Dio come lui, se avessi i suoi mezzi, avrei evitato di soffrire».
«Nessuno può evitare di soffrire. Né Dio né tu. Né i tuoi genitori né io».

«La gente ha paura di morire perché teme l'ignoto. Ma l'ignoto, per l'appunto, non si sa cosa sia. Io ti propongo di avere fiducia anziché paura, Oscar. Guarda la faccia di Dio sulla croce: subisce la pena fisica, ma non sente la pena morale perché ha fiducia. A quel punto anche i chiodi fanno meno male. Continua a ripetersi: mi fa male, ma non può essere un male. Ecco qual è il beneficio della fede. Volevo fartelo vedere».

«Ho cercato di spiegare ai miei che la vita è un regalo strano. Da principio la si sopravvaluta, si crede di aver ricevuto la vita eterna. Poi si sottovaluta, la troviamo marcia, troppo corta, si è quasi pronti a buttarla via. Alla fine ci si rende conto che non è un regalo, ma un prestito. Allora si cerca di meritarselo. Ho cent'anni, so di cosa parlo. Più si invecchia, più è necessario avere gusto per apprezzare la vita. Bisogna diventare raffinati, artisti. Qualsiasi imbecille può gioire della vita a dieci o vent'anni, ma a cento, quando non si riesce più a muoversi, bisogna usare l'intelligenza».

sabato 6 gennaio 2024

Recensione di "Cinquanta modi per dire pioggia" di Asha Lemmie

Buonasera e buona Epifania! Eccoci di nuovo qui, su queste pagine virtuali a parlare di libri e lettura.

In questo periodo, come mai prima d'ora, ho imparato a leggere durante gli spazi liberi, quei minuscoli ritagli di tempo il cui segreto sta nel riuscire ad isolarsi dalle chiacchiere, dai rumori, dalle preoccupazioni.
Oggi vi porterò, quindi, in Giappone, nel periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale, con "Cinquata modi per dire pioggia" di Asha Lemmie.


Trama: Kyoto, 1948. Nori Kamiza ha solo otto anni quando viene lasciata dalla madre davanti al cancello di un'enorme villa di proprietà della nonna. Sola e spaventata, la bambina viene accolta in casa, seppur a malincuore. La famiglia Kamiza è tra le più nobili del Giappone, imparentata addirittura con l'imperatore, mentre Nori, con quei capelli crespi e la pelle scura, è il frutto della scandalosa relazione con un gaijin, uno straniero, per di più di colore. Perciò la nonna fa il possibile perché Nori rimanga un segreto ben custodito. La relega nell'attico e la costringe a trattamenti per renderla «più giapponese»: le stira i capelli e la sottopone a bagni nella candeggina per rendere la sua pelle più bianca. Nori impara fin da subito le regole fondamentali: non fare domande, non lamentarsi, non opporsi. Ma tutto ciò che conosce viene sconvolto dall'arrivo di Akira, il suo fratellastro. Nori è certa che Akira la odierà: lui è il legittimo erede della famiglia, lei il marchio d'infamia che lo disonora. Eppure presto si rende conto che Akira non è come gli altri. Akira viene dalla grande e moderna Tokyo e non gli importa nulla né dell'aspetto di Nori né delle regole della nonna. Per lui, Nori è la sua sorellina e l'adora, almeno quanto Nori adora lui. Così, i due diventano inseparabili e Akira mostra a Nori un mondo nuovo. Un mondo in cui, finalmente, lei non è un'intrusa, non è sbagliata. Un mondo in cui il pregiudizio è sconfitto dalla forma più pura d'affetto: quello che non chiede nulla in cambio. Un mondo in cui anche lei ha il diritto di essere felice. Tuttavia ogni cosa ha un prezzo. E la libertà di Nori potrebbe richiederne uno altissimo...

Foto di G Poulsen da Pixabay

Ho acquistato questo libro all'aeroporto di Catania, dopo tre quarti d'ora di attesa ai metal detector e un ritardo infinito del volo per tornare a Roma. Mi sono rifugiata all'interno del negozio che vendeva libri, cartoleria e souvenir, uscendone con "Cinquanta modi per dire pioggia" di Asha Lemmie e il commesso che, facendo lo spiritoso, mi ha detto "Bello questo libro! Alla fine muoiono tutti!".
Non muoiono tutti, ma c'è una bella dose di sofferenza tra le pagine di questo volume.

Noriko Kamiza ha gli occhi orientali e ambrati, la pelle scura e i capelli ricci. Una giapponese molto atipica si direbbe, eppure lei è la secondogenita, frutto dell'amore di Seiko Kamiza, principessa cugina dell'imperatore, e di James, soldato afroamericano. Frutto, perciò, dell'adulterio, una maledizione, come rivelano le sue caratteristiche fisiche.
È Seiko a lasciarla, dopo una vita dolorosa, davanti casa della nonna materna, Yuko Kamiza, sparendo per sempre. Nori è una bambina molto dolce e obbediente, ma sua nonna le riserva un trattamento che sarebbe eufemistico definire "tortura": dai bagni con la varechina per schiarire la pelle, alle percosse, per non contare il fatto che per anni Nori venga relegata nella soffitta, senza poter mai uscire, nemmeno nel giardino dell'immensa dimora.
Nori vive come una prigioniera, lei che è una vergogna per la casa reale, fin quando non arriva Akira, il suo fratellastro, primogenito di Seiko, erede dei Kamiza. Nori si avvicina con curiosità e timore: lei, una maledizione, non può di certo competere con Akira... eppure il fratellastro non è come gli altri della sua famiglia. È buono, generoso, possiede una mentalità aperta per l'epoca e sarà grazie a lui che le catene di Nori inizieranno a sciogliersi, per riacquistare infine una libertà insperata.

La libertà, però, ha un prezzo alto da pagare per una mezzosangue. Yuko e suo marito non lasceranno di certo che Noriko possa infangare la loro casata. Dopo aver subito crudeltà inaudite, Nori riesce a sopravvivere, vede il mondo, si immerge nella musica che il fratello le ha insegnato ad amare e, quando finalmente, dopo una dolorosissima perdita sembra tutto andare per il verso giusto, l'ombra dei Kamiza si riaffaccia, riportando Noriko verso il suo destino. Nori, però, è cresciuta, conosce le proprie responsabilità e il sacrificio. Sua nonna, pur avendola sempre disprezzata, dovrà infine ammettere di avere davanti a sé una degna rivale.


Ho trovato questa storia affascinante e dolorosa al tempo stesso: affascinante perché narra della rinascita di Noriko, una rifiutata, una mosca bianca; dolorosa, perché non si può nemmeno immaginare fin dove possa spingersi l'odio verso un altro essere umano, per di più per questioni di superstizione e di onore. Noriko viene forgiata come una guerriera, abituata a sopportare, ad obbedire anche quando la realtà è veramente terribile, ma mai perde la sensibilità, il coraggio, l'animo dolce e puro che aveva caratterizzato quella bambina dagli occhi ambrati lasciata da sola davanti la grande e austera dimora dei nonni.
Il ritmo narrativo è incalzante e spinge a volerne sapere sempre di più, a capire che cosa farà e come si comporterà la protagonista nell'immediato futuro. Talvolta, viene utilizzato un cambio di narratore, per fornire al lettore un punto di vista diverso, ben inserito all'interno della storia.
E poi, come sfondo, c'è il Giappone: un paese dalle tradizioni millenarie, appena uscito sconfitto dalla guerra che, tuttavia, non si arrende, proprio come i suoi abitanti, dotati di una forza d'animo surreale e da un senso dell'onore che, per noi occidentali, forse è totalmente sconosciuto. A questo si dovrà, però, aggiungere come si evidenzi il ruolo della donna, considerata un oggetto da far sposare, da lasciare nell'ignoranza, utile solamente a procreare e di cui abusare, ma mai adatta a comandare o ad occupare ruoli di spicco nella società. Mentalità, questa, che in alcuni paesi (e in alcuni ambienti) sembra ancora essere radicata.
Asha Lemmie ha fatto un ottimo lavoro e spero vivamente in un secondo volume.

Vi lascio con qualche frase tratta dal romanzo e vi aspetto, a breve, con la prossima recensione!



«Le piaceva dormire, anche se spesso non ci riusciva. Era un momento in cui provava qualcosa che, da sveglia, le veniva negato sempre: la libertà».

«Bisogna essere forti per sopravvivere. Se non altro, nonna, questo me l'hai insegnato».
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