book

martedì 29 gennaio 2019

"Bella l'archeologia! E dove lavori?"

Giornata di sole, una delle poche a Roma in queste settimane di pioggia intensa, un miracolo forse dato che già per domani è previsto un acquazzone.
Ho vari giri da fare, come se il mondo si fosse svegliato tutto insieme concentrando il mio coinvolgimento in una giornata sola. Dopo il primo appuntamento, ho intenzione di concedermi un po' di tempo soltanto per me, perdendomi tra le sale di Palazzo Braschi e andando a visitare la piccola mostra temporanea su Paolo VI, "papa degli artisti". Sono curiosa perché conosco poco questo aspetto, soprattutto se legato a una collezione di arte contemporanea che, logicamente, è piuttosto distante dal mondo antico in cui solitamente vivo.

Dicevo, primo appuntamento della giornata: entro nell'edificio super riscaldato, subendo uno sbalzo termico da far paura e pregando che non mi peggiori il raffreddore.
Chiedo informazioni, attendo due minuti, mi siedo, stretta di mano. Tutto a posto, sorrisi di circostanza, qualche parola per rompere il ghiaccio.
- Bene, questo è per lei. Allora come la registro?
- Scusi, in che senso?
- Cosa ha studiato?
- Archeologia... sono archeologa, dottore di ricerca.
- Ah bene, il mondo antico mi affascina. Avrei voluto studiarlo, ma poi ho fatto altro (tipico, penso tra me e me). Dove lavora quindi? Quale riferimento inserisco?

Quello spacco nel mio animo fa di nuovo crack. Lo "scotch da pacchi" ultraresistente che avevo messo per non farmi male non ha evidentemente retto. Anche stavolta subisco il colpo, ma non riesco ad ammortizzarlo completamente.

- Sono archeologa, ma svolgo ricerche in maniera indipendente al momento.
- Nessuna affiliazione? Università, istituto di ricerca...?
- Sono disoccupata. Non so cosa voglia inserire. Scriva quel che più si addice secondo lei.
- Oh, beh... mi dispiace tanto allora...
- Non fa nulla, non sono l'unica.


La signora scrive, con un sorrisetto di commiserazione, ovvero l'ultima cosa che vorrei suscitare. Perché non ho bisogno di essere commiserata, non voglio che la gente provi pietà e mi dica "poverina".
Mi pesa dover dire quel "disoccupata", mi pesa soprattutto dopo 10 anni di intenso studio - una laurea triennale, una magistrale, un corso di perfezionamento, un anno di baccelleriato, uno di licenza e tre di dottorato -, dopo una vita trascorsa tra sopralluoghi, tirocini formativi sugli scavi, ricerche in biblioteca e in archivi. Mi pesa e mi fa star male, alle mie richieste di lavoro con invio di decine e decine di CV, ricevere sempre gli stessi commenti: "Sei troppo formata", oppure "Ci occorre una risorsa con capacità specifiche" che non corrispondono alle mie (si veda bandi di concorso cuciti per i vari candidati). O ancora, l'umiliazione "Se vuoi possiamo collaborare, ma gratuitamente. Sai, con il mondo culturale va così".
No, non va così. Va così in Italia dove i baroni decidono chi inserire nei vari posti, dove i concorsi pubblici lo sono per finta perché è già stato tutto stabilito a tavolino, dove quelli come me che hanno il "difetto" di aver studiato e di avere competenze sono ridotti a un numero in eccesso, a persone inutili.
Sono disoccupata e no, molto probabilmente non rientrerò nemmeno nel famoso reddito di cittadinanza, con il quale comunque non sarei stata d'accordo. Avrei preferito un posto di lavoro normale, anche con uno stipendio moderato, ma che valorizzasse i miei studi, la mia persona, che mi restituisse dignità.

"Il lavoro nobilita l'uomo"... e se il lavoro non si trova, cosa facciamo? La mia generazione si è sentita dire che è piena di bamboccioni, è dovuta emigrare adattandosi a "lavoretti" (non ha scelto di farlo! E' stato quasi un obbligo imposto dalla mancanza di un futuro!), ha dovuto studiare il triplo delle attuali classi dirigenti composte ancora da signori che dovrebbero andare in pensione ma proseguono a rimanere incollati alle loro sedie.

Sono disoccupata e mi sento male ogni volta che qualcuno mi chiede "Cosa vedi nel tuo futuro?"... perché io un futuro non lo vedo più. 


Devo vivere alla giornata e non c'è nulla che mi faccia sentire peggio: si avverte un vuoto, un senso di abbandono. Avevo dei sogni che si sono infranti, avevo degli obiettivi che mi sono stati sottratti. 
Vorrei fare l'archeologa, dico, ma in realtà lo sono già. Allora forse la cosa più sensata da dire è "Vorrei avere un'opportunità, quella che tutti mi stanno negando".
Qualcuno mi ha detto "Prosegui a studiare. Fai anche la scuola di specializzazione". C'è altro che dovrei fare? Ci sono altri soldi che dovrei chiedere ai miei genitori per avere titoli che metterò da parte? Ancora non basta?

Cara segretaria, poco più grande di me, che mi hai guardato con commiserazione, mi viene da domandarmi come abbia ottenuto il posto che ricopri. Sicuramente con merito, ma se così non fosse? So che non te ne importa, ma ci vuole tatto con il prossimo. Non sei al telefono. Hai guardato negli occhi una studiosa che ha affrontato di tutto nella vita, che ha un passato travagliato di cui non parla mai, che ha ottenuto quel poco combattendo con tutte le forze e che non sta con le mani in mano. 
Se è disoccupata, il problema non è in lei, ma nella gente che ha incontrato lungo la sua strada e che ha reso il suo percorso scivoloso e impervio. Quell'archeologa dall'incarnato mediterraneo, con i lunghi capelli castani e lo sguardo acuto non si è mai arresa anche se porta con sé un bagaglio di tristezza. Quell'archeologa ama il suo lavoro, eppure non può esercitarlo.


- Va bene, faccio io.
- Sì, ma qualsiasi cosa, specifichi che gli studi li ho terminati già da due anni.

Esco da lì, comunque a testa alta, ma con quello spacco nell'animo che fa male. Come tutte le ferite, con il tempo passerà. La cicatrice sarà lì in bella mostra, pronta a riaprirsi. Provo a difenderla con lo scudo e un sorriso, ma spesso non ci riesco più. 
Percorro Campo de' Fiori, lancio uno sguardo a Giordano Bruno e proseguo. Il museo mi attende. Mi immergo nuovamente nel passato: se non posso lavorare per tutelarlo, valorizzarlo e studiarlo, almeno nessuno mi impedirà di osservarlo.

venerdì 4 gennaio 2019

Recensione di "Il ritorno di Mary Poppins"

Buongiorno e buon anno amici! Come state? Vi siete ripresi da pranzi e cene in compagnia? Manca ancora l'Epifania, ve lo ricordo...

Torno sul mio blog per parlarvi del nuovo film Disney "Il Ritorno di Mary Poppins" che sono andata a vedere al cinema proprio qualche giorno fa.


Tutto incomincia dal magnifico viale dei ciliegi 17, Londra, negli anni della grande depressione, un periodo storico di crisi economica che condurrà alla Seconda Guerra Mondiale e parte dal 1929.
L'atmosfera è un po' cambiata da quella che ricordavamo nel primo film, dove carrozze e dame attraversavano le strade in una Londra molto curata. Adesso, invece, ci sono le automobili, il grigiore sembra essersi espanso e anche l'animo della famiglia Banks non è proprio quello allegro che avevamo lasciato.


Michael Banks si è sposato, ha avuto 3 figli, ma è anche rimasto vedovo in giovane età; sua sorella, Jane, è single e, sulla scia della madre che, all'epoca, era una suffraggetta, combatte per i diritti dei lavoratori sottopagati. Al numero 17 di viale dei ciliegi vive con i due fratelli Banks anche Ellen, la domestica, unico sostegno a un Michael che, confuso dalla perdita della moglie, non sa più come gestire i bambini e i suoi enormi problemi. L'uomo, infatti, dipendente della Banca di Credito, Risparmio e Sicurtà di Londra, riceve un giorno la visita degli avvocati: la sua casa sarà pignorata se, entro pochi giorni, non riuscirà a saldare il debito con la stessa banca cui aveva chiesto un prestito. Disperato, Michael chiede aiuto a Jane la quale si ricorda che il padre, in quanto membro anziano dell'istituto bancario, doveva aver lasciato delle azioni.
Parte la ricerca disperata di quel foglio in cui tutto era attestato, ma si sa Michael è sempre stato distratto... il documento era stato utilizzato per alcuni suoi schizzi. Stava per essere gettato via insieme alla roba vecchia e ad alcuni ricordi (tra cui la palla di neve con la Cattedrale di San Paolo), senonché il figlio minore, Georgie, lo recupera, usandolo poi per riparare il famoso aquilone.


Il film si apre perciò con i due Banks, ormai cresciuti, che devono affrontare le difficoltà della vita e tendono a voler dimenticare il loro passato, compresa la magia vissuta con Mary Poppins. Ma si sa, Mary arriva sempre nel momento del bisogno e non per salvare i bambini.... bensì per aiutare i genitori. Mary, com'era giunta sospinta dal vento dell'est per George Banks, torna per suo figlio Michael. Ed ecco che, in un giorno di vento, il piccolo e irrequieto Georgie porta con sè l'aquilone. Suo fratello e sua sorella, John e Annabel, tentano di aiutarlo insieme al lampionaio Jack (ex apprendista dello spazzacamino Bert) a riportarlo giù, ma all'improvviso l'aquilone si abbassa con Mary Poppins aggrappata alle sue estremità.
Jack la riconosce e la saluta: Mary è tornata! Ed ecco che la governante più famosa del mondo fantastico si ripresenta a casa Banks, provocando lo sgomento di Jane e stupore misto a irritazione di Michael.


Come per il film originale, i tre bambini vivranno con Mary delle avventure magiche: tornerà la borsa più capiente dell'universo da cui estrarre di tutto; il tocco delle dita per rimettere in ordine le camere; vi è un salto nella vasca da bagno che diventa improvvisamente una nuotata nel fondo dell'oceano e che, agli appassionati Disney, ricorderà certamente un altro film "Pomi d'ottone e manici di scopa"; senza dimenticare un viaggio nella decorazione del vaso - evocando il salto nel dipinto di Bert - con la presenza di molti animali animati che ricordano ancora il già citato film che aveva come protagonista Angela Lansbury; una visita alla cugina di Mary, Topsy (interpretata da Meryl Streep), il cui mondo è tutto sottosopra, un po' come lo era quello di zio Albert;



infine, un'avventura tra le strade e i tetti di Londra con i lampionai, esattamente com'era accaduto precedentemente con gli spazzacamini, che si configurano come i custodi della città, angeli silenziosi che controllano tutto, concludendosi con una corsa nella banca per tentare una lotta contro il tempo e il nipote cattivo di Mr. Dawes, interpretato da Colin Firth.



Il film vede la comparsa di Angela Lansbury, nelle vesti della signora che, al termine dell'avventura, regala palloncini magici al parco, in grado di far volare solo chi ancora riesce a sognare e dell'unico, mitico e irrepetibile Dick Van Dyke che, alla bella età di 93 anni, inscena un balletto evocando i vecchi tempi, nelle vesti di Mr. Dawes.


Cosa ne penso? Sono in preda a sentimenti contrastanti. Prima di tutto, il viaggio nel tempo verso la Londra di Mary Poppins mi è sicuramente piaciuto. Adoravo viale dei ciliegi e amavo il film. Ho consumato la cassetta quand'ero piccola e ho sfogliato il libro per bambini non so quante volte. Ancora oggi osservando un affresco con gessetti su strada o una giostra dei cavalli penso al film che mi incantava tanti anni fa (purtroppo non sono mai riuscita a far volare un aquilone perché nessuno me lo ha mai insegnato, ma è rimasto un mio sogno).
Per il resto, direi che il film è stato probabilmente pensato dai produttori Disney per affermarsi come un nuovo punto di riferimento, quello delle nuove generazioni, così come il primo Mary Poppins lo era stato per i bambini degli anni '70-'80-'90. Nonostante ciò, sono rimasti dei ganci con il passato (includo l'ammiraglio che non ha smesso di far tuonare il cannone), compresi i riferimenti a "Pomi d'ottone e manici di scopa", oppure a Peter Pan e Basil l'investigatopo (il Big Ben vi dice nulla?) che, evidentemente, i piccoli di oggi non potranno comprendere senza prima aver visionato opportunamente i precedenti classici.




"Il ritorno di Mary Poppins", almeno per quel che mi riguarda, mi è sembrata una brutta copia del primo e originale "Mary Poppins", una ripresa di ogni singolo passaggio reinterpretato: ecco che il salto nell'affresco diventa quello nella decorazione del vaso; la scena dei tre bambini che entrano nella banca è del tutto simile a quella di Michael e Jane nel primo film; zio Albert diventa Popsy; gli spazzacamini si trasformano in lampionai e Bert diventa Jack; Bert che, nella scena finale del primo film distribuiva aquiloni, è sostituito dalla signora dei palloncini; lo stesso Michael che, con una pallida imitazione dei baffi del padre, sembra somigliare al buon vecchio George Banks senza tuttavia riuscire.

La nuova Mary Poppins, alias Emily Blunt, è brava, certo, ma chi ha nella mente Julie Andrews capirà che non c'è paragone che tenga. A tratti l'ho trovata apatica, troppo seria, mentre nella prima e originale Mary Poppins traspariva dolcezza oltre la perfezione.


Lo stesso discorso vale per Jack: Lin Manuel Miranda ha alcune espressioni che ricordano Bert, evidentemente studiato alla perfezione dall'attore, ma nulla in confronto a Dick van Dyke, con quel sorriso inconfondibile e contagioso, arricchito dallo sguardo allegro e azzurro.
Per terminare, le canzoni: non ci sono più un "Supercalifragilistichespiralidoso" da canticchiare, un "Camin caminì" oppure "Una pillola che va giù", ma motivetti musicali che, purtroppo, nel loro adattamento italiano il più delle volte non ho trovato orecchiabili, nonostante i pinguini canterini siano sempre quelli dei vecchi tempi.


«Le persone praticamente perfette non si lasciano confondere dai sentimenti» diceva Mary al suo ombrello al termine del primo film. Io non sono praticamente perfetta e mi sono lasciata confondere da tanta nostalgia. Tuttavia, ne consiglio la visione: il film è carino per i più piccoli, mentre i più grandi faticheranno a lasciar andare la loro infanzia trascorsa "a canticchiare sui tetti" insieme alla Andrews e a Van Dyke.

sito