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domenica 28 febbraio 2021

Recensione di "Un angelo per sempre" di Federica Bosco

Buonasera amici e buona domenica! In questo periodo piuttosto intenso, ci sono sempre fortunatamente i libri a salvarmi e, in quest'ultimo mese, ho dato spazio a "Un angelo per sempre" di Federica Bosco, il quarto libro della saga che aveva visto protagonista Mia, adolescente con una passione sfrenata per la danza, innamorata del suo Patrick, venuto a mancare troppo presto e trasformatosi in un angelo.
Ero stata molto presa dalla trilogia e, come tutte le lettrici, ne ero uscita con il cuore spezzato dalla scomparsa definitiva di Patrick dalla vita di Mia. Questo proseguimento non me lo sarei aspettato.



Trama: Mia ha ventiquattro anni, balla con l'American Ballet Theatre di New York e vive con Adam. Ma il loro iniziale idillio pare essersi trasformato in ben altro: si vedono poco, quando sono insieme spesso litigano, le reciproche carriere li hanno messi di fronte a molte difficoltà. Adam non è riuscito a sfondare davvero, mentre Mia, che ha lavorato duramente, è prossima a un traguardo. Ecco però che quando l'obiettivo sembra a portata di mano, un imprevisto ferma i suoi piani e la getta nello sconforto più nero. Ma a volte la vita offre inattese opportunità e apre porte che non si credeva esistessero: quella che sembrava una battuta d'arresto può trasformarsi in un'occasione per pensare, per allentare la tensione che la stritola, per riflettere sulla strada che ha scelto di percorrere e magari per riscrivere il futuro. Tanto più se il destino ha deciso di riservarle un incontro molto speciale. Con qualcuno che le ricorda in tutto e per tutto una persona che appartiene a un passato lontano, molto lontano...


Ventiquattro anni e tanti sacrifici, hanno condotto Mia a New York dove lavora all'American Ballet Theatre e convive con Adam.
Il passato sembra ormai lontano e Mia si allena duramente per un magnifico passo a due che conferirà allo spettacolo quel tocco in più e a lei il ruolo di grande ballerina. Eppure, a volte le cose non vanno come dovrebbero. Mia sta per essere investita da un taxi, quando viene scaraventata a terra con un duro colpo che le provocherà contusioni, fratture e l'esclusione dal balletto.
Ma chi ha salvato Mia da morte certa? Lei non può credere ai suoi occhi perché il ragazzo che le si presenta si chiama Nathan ed è la fotocopia di Patrick. In tutta la sua potenza quel passato lasciato in un angolino riemerge, travolgendola. E se Patrick non fosse morto? O se, in qualche modo, si fosse reincarnato? Le coincidenze sono troppe, così come le cose in comune.
Intanto il rapporto con Adam va in crisi: lui è diventato un tossicodipendente, cedendo alle sue debolezze causate dalla grossa pressione lavorativa.
Mia si trova a un bivio: proseguire con la sua esistenza allenandosi per riprendere a ballare, sopportando intanto Adam e aiutandolo a uscire da quella situazione, oppure ricominciare da capo, con un sogno più grande, in un altro luogo con un altro uomo.
La nostra ballerina non è tipo da arrendersi facilmente e proprio per questo guarda verso quel futuro incerto, che al contempo la incuriosisce facendole ritrovare speranze, radici e amore.



Ero molto felice di aver acquistato questo quarto libro, anche se nelle "riprese" post trilogie conclusive non ci credo molto. E infatti, purtroppo, la mia impressione è stata confermata.
Ho trovato la narrazione scorrevole come sempre, ma eccessivamente concentrata sul ballo e sui tecnicismi nei primi dieci capitoli circa. Nathan, Fran, Nina e tutti i personaggi che ruotano intorno a Mia hanno fatto sì che scattasse quella scintilla per far sbloccare un racconto che sembrava un tantino bloccato; tuttavia, ho trovato molte scene totalmente ripetitive. Mia in ospedale, Mia salvata dalla copia di Patrick (o da Patrick stesso? Non lo sapremo mai), i luoghi del passato e Mia che torna a Londra, ripercorrendo in un certo senso le tappe prima di intraprendere una strada diversa.
La suspense è costituita dal soggetto di Nathan: questo ragazzo era in Marina, come Patrick, ma poi ha avuto un incidente e ha perso irrimediabilmente la memoria, finendo per fare il pompiere. E' talmente uguale a Patrick da sembrare lui; molti segni - anche soprannaturali - sembrerebbero confermarlo, eppure... eppure il lettore rimarrà con il dubbio. In fin dei conti, Patrick o no, Mia ne è innamorata lo stesso.
Per le fan sarà un ritorno all'interno di una storia che ha appassionato sicuramente, toccando tasti nostalgici, ma penso che Federica Bosco abbia scritto questo nuovo capitolo più per accontentare le lettrici che non si erano mai arrese al fatto che Mia si mettesse con Adam e il fantasma di Patrick sparisse per sempre, piuttosto che per una necessità di completamento o di innovazione della saga.


Indubbiamente gli insegnamenti trasmessi da Mia rimangono: seguire sempre le proprie passioni e realizzarsi nella propria vocazione; seguire sempre il proprio cuore, anche quando tutto sembra andarci contro; non arrendersi mai perché c'è sempre una piccola speranza accesa da qualche parte.


«Dalla notte dei tempi poeti, musicisti e scrittori avevano tentato di definire l'amore, di dargli un colore, una forma, una struttura fisica, per riuscire a ovviare alla mancanza di un foglietto illustrativo che ti spiega se i sintomi sono giusti, se quell'improvviso sentirsi confusi, insicuri, goffi, imbarazzati, con le gambe di gelatina e il cuore scoperto siano normali o stiano succedendo solo a te, ma senza successo. Nessuno sa spiegare perché improvvisamente ti senti così bene, di un bene quasi artificiale, chimico, come se avessi provato una droga sintetica, un trip con l'LSD. Tutto splende, i colori sono più vividi, i profumi, i suoni, la gente che incontri è più bella e anche tu lo sei, la tua pelle è più luminosa, i capelli splendono, e gli altri se ne accorgono. Sorridi, non fai che sorridere e fantasticare e sognare, e ami il mondo, ami la tua vita e ami lui, e il modo in cui ti fa sentire. Ed è la trappola più pericolosa che ci sia. Hai appena delegato il tuo benessere a qualcun altro che in ogni momento, semplicemente per il fatto di essere altro da te, ti delude con una semplice disattenzione, una risposta diversa da quella che ti aspettavi [..]».

«Non tutti hanno la fortuna di fare quello che amano, e se incidentalmente il lavoro che fai ai massimi livelli è anche il più bello del mondo, hai un debito nei confronti della vita e del destino».

«[...] l'amore ti salva la vita se glielo permetti».

«"Io credo che l'amore sia come il ragù", rispose riflettendo. "Sembra una ricetta facile, invece ci vuole un sacco di cura perché riesca bene [...]"».

«Quando qualcuno muore sparisce solo dalla tua vita, non dal tuo cuore».


domenica 7 febbraio 2021

Recensione di "La faccia delle nuvole" di Erri De Luca

A volte capita che ti innamori di un libro aprendone una pagina, magari di fretta, mentre stai uscendo dalla libreria perché sei in ritardo. A volte la copertina non ti attrae immediatamente, ma ti fa pensare e, solo dopo aver ben compreso il messaggio insito nella narrazione, riesci a decodificarla.
Mi è accaduto proprio questo con "La faccia delle nuvole" di Erri De Luca. Come scrissi tempo fa, non conoscevo questo autore, finché un caro amico non mi regalò "I pesci non chiudono gli occhi". Da allora, mi piace imbattermi in tematiche di riflessione che, molto spesso, riguardano pensieri diversi dai miei.


Trama: Continua il dialogo tra Miriàm e Iosèf. Continua con il loro esilio in Egitto, il bambino carico di doni e di pericoli. Oro, incenso, mirra e scannatori di Erode, il Nilo e il Giordano, la falegnameria e la croce: la famiglia più raffigurata del mondo affronta lo sbaraglio prestabilito. In ogni nuova creatura si cercano somiglianze per vedere in lei un precedente conosciuto. Invece è meravigliosamente nuova e sconosciuta. Ogni nuova creatura ha la faccia delle nuvole.

Ho quindi aperto il libro, sfogliato qualche pagina controllando l'orologio per essere sicura di non arrivare in ritardo al lavoro... e mi sono imbattuta in un dialogo tra Miriàm e Iosèf, Maria e Giuseppe, proprio quei due che ho sempre sentito nominare nel Nuovo Testamento. E si sa, un'archeologa cristiana, tanto più se iconografa, li conosce come se li avesse incontrati davvero.
Non sapevo che Erri De Luca avesse tradotto alcuni libri delle Scritture, ma effettivamente questa sua esperienza emerge palesemente dalle righe di questo volumetto, soprattutto quando si sofferma sull'etimologia di alcune parole, confrontando le traduzioni che sono giunte a noi e i testi ebraici.
Il dialogo tra Giuseppe e Maria inizia proprio dalla nascita di Gesù (Ieshu), un evento che il povero Giuseppe attendeva ma cui non riusciva a fornire risposte esaurienti. Eppure, si fida ciecamente di sua moglie Maria, saggia e dallo sguardo illuminato. Quell'esserino che tiene tra le braccia ha già una storia, ancor prima di iniziare a vivere, un destino di cui si parla da secoli.


Erri De Luca, però, non scrive un saggio in ottica esclusivamente cristiana: prende atto del ruolo che Gesù rivestirà per la religione, ma analizza il tutto da un punto di vista umano.
Maria, Giuseppe e Gesù sono ritratti come una normalissima famiglia. Preoccupati per quel che accade a causa di Erode (la strage degli innocenti), fuggono, sono profughi in cerca di un riparo sicuro.
E ancora, quel bambino speciale - cui Giuseppe insegna il mestiere di falegname - si ritrova a parlare con i saggi nel Tempio, stupendo sia il padre che la madre.
Ho letto i Vangeli Apocrifi e molti degli aspetti in essi esposti vengono rielaborati e inseriti da De Luca in questo libro: l'umanità di Cristo, quella stessa umanità che viene lasciata sempre in secondo piano rispetto alla divinità. E allora tutto si ricollega con la copertina in cui si notano i dettagli dell'epidermide, della carne. In Cristo sono unite divinità e umanità, in una duplice natura. La mia essenza di studiosa non potrà far altro che ricollegare il tutto a un fatto storico, quello del Concilio di Efeso del 431, in cui veniva proclamata e stabilita - combattendo l'eresia di Nestorio - l’unità e l’unicità della Persona divina di Cristo e così anche la maternità di Maria, estesa a tutta la sua persona non umana ma divina.
Erri De Luca si pone all'esterno, un narratore che guarda i fatti svolgersi con umanità e con un punto di vista terreno. Gesù si pone anche in un periodo particolare, quello delle rivolte giudaiche. Si aspettava un Messia, qualcuno che venisse a liberare il popolo ebraico dall'oppressione di Roma. I romani lo osservavano con sospetto, eppure Gesù non fece mai nulla di equivoco; il suo era un messaggio di pace, ma forse il destino che, da sempre, lo aveva rivestito era riuscito, infine, ad avverarsi.
«Basta con questa favola, nostro figlio non ha la faccia delle nuvole che cambiano forma e profilo secondo il vento». Gesù non somiglia a nessuno, solo a se stesso, eppure pesava l'aspettativa della gente su di lui, di chi credeva nelle profezie, cui alla fine si trovò una corrispondenza.


In queste pagine c'è conoscenza della storia romana, di quella ebraica, della cultura di quel tempo e ovviamente delle Scritture; c'è una mentalità tipica che scorre sotterranea ed emerge attraverso profezie e credenze tramandate nel tempo; c'è la storia di una famiglia, vissuta in armonia fino a un certo punto, quando tutto il resto ha preso il sopravvento; c'è la storia di un uomo, che aveva in sé un aspetto divino, compreso da alcuni, invisibile a molti, manifestatosi solo dopo la morte.
Erri De Luca, infine, collega gli episodi salienti della vita di Gesù e della sua famiglia con un messaggio sociale e contemporaneo, forse con qualche parallelismo, che ogni lettore sarà libero di commentare a modo suo.

martedì 2 febbraio 2021

Recensione di "Quanto blu" di Percival Everett

Buongiorno lettori e bentornati su questo blog! Siamo ormai agli inizi di febbraio, il consueto gelo invernale non è ancora terminato... e vi confesserò di aver ceduto all'offerta di La Feltrinelli: due libri con copertina del lettore (che trasmette anche molto calore).

Oggi provo a farvi immergere in un quadro, un'enorme tela, in cui i toni del blu sono abilmente mescolati. Ma cosa vogliono comunicare? Andiamo a scoprirlo.



Kevin Pace è un artista e lavora da tempo a un dipinto che non lascia vedere a nessuno: non ai figli, non al migliore amico Richard e neppure a sua moglie Linda. Questa enorme tela di quattro metri per sette, interamente ricoperta da strati di vernice blu di diverse sfumature, potrebbe essere infine il suo capolavoro. Kevin non sa ancora dirlo o, meglio, non gli interessa, perso com'è nel suo passato di cui questo quadro sembra essere una sintesi, un'enigmatica e incomprensibile rappresentazione. Perché Kevin custodisce un segreto: dieci anni fa, a Parigi, ha avuto una relazione con una giovane pittrice e, seppur oggi non riesca a spiegarsi cosa lo mosse allora, il fantasma della ragazza e le bugie raccontate per anni non smettono di assediarlo. Mentre combatte con i demoni della sua memoria, Kevin deve difendere i sacrifici fatti in nome dell'arte e proteggere la sua famiglia da ciò che non hai mai avuto il coraggio di rivelare: il suo quadro, che racchiude un'indicibile verità, potrebbe essere la sua salvezza, o la sua condanna definitiva.

Questo romanzo mi ispirava da tempo e da mesi entravo in libreria, lo sfogliavo, leggevo instancabilmente qualche riga, lo rimettevo al suo posto e lo salutavo, con la promessa di tornare ad acquistarlo. E alla fine l'ho letto. Tutto, ogni singola riga, ogni pagina, ogni sensazione stampata.
Percival Everett ci trasporta all'interno dell'animo di Kevin Pace, un pittore contemporaneo, un astrattista. Si sa, gli artisti possiedono sempre quel tormento che li rende inquieti, creativi, e Kevin non fa eccezione. Ma cosa si cela dentro di lui e, sopratutto, in quel dipinto misterioso che tiene nel suo scantinato, lontano dagli occhi di familiari e amici?
Il racconto in prima persona si svolge in tre diversi tempi e luoghi: Philadelphia, ai giorni nostri, dove Kevin abita con la famiglia; Parigi, una decina di anni prima; 1979, a El Salvador.


Per ogni epoca esiste un segreto: la promessa fatta e mantenuta (ma che avrebbe, forse, dovuto spezzare) ad April, sua figlia, riguardo la gravidanza inaspettata e indesiderata; un amore fresco e troppo giovane per Victoire, pittrice; gli orrori della guerra civile, la morte davanti agli occhi e una legittima difesa che equivale a una macchia nell'animo, a un omicidio.
A tutto questo si aggiungano i problemi che ogni uomo può affrontare nell'arco della propria vita: un matrimonio apparentemente felice che nasconde la mancanza del vero amore; l'alcolismo, abbandonato, poi ripreso, per non pensare, per dimenticare; la voglia di evadere da una vita che sta stretta, che forse non si è scelta completamente in maniera consapevole; l'ardore di un amore puro, che si è costretti ad abbandonare a causa delle convenzioni sociali.
C'è chi quest'ultima esperienza la chiama "crisi di mezza età". Molti uomini (e anche donne) ne soffrono: l'eterno Peter Pan che riemerge dal corpo di un uomo e insegue la giovinezza, finendo per invischiarsi in una storia con l'amante più giovane. A volte, però, capita - come nel caso di Kevin - che si conosca il vero amore, lo si conosca tardi, lo si percepisca con la persona in quel momento sbagliata che non corrisponde alla donna scelta come propria compagna di vita... soprattutto se sei un uomo che si è sposato per avere sicurezze, non per sentimento. E Victoire cosa rappresenta? La freschezza, la libertà, la purezza di spirito che Kevin aveva perso tanti anni prima. Perdersi nel suo amore significa anche dissetarsi. Victoire è la spuma bianca a riva lasciata da un oceano profondamente blu.


E Linda allora? Il porto sicuro, la madre dei figli, un sentimento molto più simile a un grande affetto che a un sincero amore. Perché se è vero che per rimanere insieme bisogna superare le difficoltà che il matrimonio pone davanti (e sono tante), è anche vero che occorra un sentimento saldo e sincero.
Kevin appare spesso come un uomo solitario, perso in un'altra dimensione: egli trova conforto nella pittura, attraverso la quale può esprimersi e liberare la propria anima dai pesi che la tengono ancorata a terra; quella stessa pittura che gli permette, almeno per un po', di vivere la vita di cui aveva bisogno, non quella in cui - per scelte a volte frettolose e non ponderate - si è ritrovato.

"Quanto blu" è un romanzo particolare, al confine tra il genere narrativo e quello psicologico, che pone di fronte ai problemi più comuni, vissuti con intensità, a volte senza soluzione, delineando probabilmente il profilo di ogni essere umano.

Dalle righe che avevo letto qua e là durante le mie visite in libreria, avevo avuto l'impressione di trovarmi davanti a un romanzo diverso. Ho personalmente percepito come piuttosto pesante, seppur ben scritta, la parte relativa al 1979: quella guerra civile, con tutti gli orrori connessi, scorre lentamente (a volte troppo), nonostante rimanga impressa - come credo sia stata intenzione dell'autore - nella mente del lettore. Avrei forse voluto immergermi in una lettura più leggera, seppur con i suoi dovuti approfondimenti. Ad ogni modo, "Quanto blu" è sicuramente un bel romanzo che pone vari spunti di riflessione, certamente consigliato a un determinato genere di lettore.


«Lo dicevano spesso, che io evitavo il blu. Ed era vero. Quel colore mi metteva in crisi. Non riuscivo a controllarlo. C’era quasi sempre come una base di calore nella mano di fondo, ma in superficie non si vedeva mai, non era mai più che un’idea in nessun quadro. E sebbene il blu sia tanto piacevole, sia un colore gradito o amato da molti - nessuno odia il blu - non lo potevo usare. Il colore della fedeltà, della lealtà, l’argomento dei filosofi, il nome di una forma musicale... ma il blu non era mio. E per estensione nemmeno il verde. Di fatto, in giapponese e in coreano il blu e il verde hanno lo stesso nome. E benché il cielo sia blu, in quanto colore agli umani è arrivato tardi».

«Ero arrivato ad amare il potere dei segreti e vedevo ogni quadro come un segreto in attesa di essere svelato».

«Le sfiorai una guancia. "Sei amorevole, sei un color puro". "Amorevole, è una parola interessante". "Sì, vero?". Mi prese la mano. Le chiesi: "Allora che cos'è questo... noi, che cosa abbiamo?". "L'amore". "L'amore" ripetei come in ascolto di quella parola. "È una parola così grossa". "Tu amami e basta" lei mi disse. "Ti amo"».

«Tieni un segreto abbastanza a lungo e non potrà più essere svelato, o semplicemente non lo sarà». 
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