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domenica 14 novembre 2021

Recensione di "Il Parnaso ambulante" di Christopher Morley

Buonasera amici, piove qui a Roma, anzi, diluvia come accade ormai da giorni. Sarà anche un problema legato al clima, ma è pur vero che ci troviamo nel bel mezzo di novembre ed è normale che ci siano brutte giornate.
Mi trovo, quindi, in questa domenica, a scrivere nella mia camera, accompagnata dalla luce della scrivania. Finalmente, dopo molto tempo, sono riuscita a leggere qualche libro in breve. Per me, abituata a studiare fino alle 02.00 di notte o a condurre ricerche, si tratta di una fantastica riconquista di libertà. Il lavoro è importante, ma lo sono anche gli attimi di respiro, quel riposo da occupare con le proprie passioni. Chissà se riuscirò anche a riprendere a suonare la chitarra? Sono anni che ci provo e non trovo mai tempo, ma mai dire mai.

Ebbene, proprio nel pomeriggio ho terminato la lettura di "Il Parnaso ambulante" di Christopher Morley, un libro acquistato "incartato", quindi al buio, senza osservarne la copertina, nel punto La Feltrinelli di Viale Giulio Cesare a maggio scorso. Ero appena uscita dall'appartamento di una mia amica e collega con cui stavo preparando un lavoro che poi non prese più il via (che novità...), quando ho deciso di fare una pausa letteraria per trovare conforto tra le pagine dei libri. Ed eccomi qui.




Trama: Viaggiare per le strade aperte della Nuova Inghilterra, a bordo di un attrezzato bibliobus trainato da un grande cavallo, con un cane al seguito, in compagnia di un professore-poeta agile e versatile come un elfo, vendendo libri utili e grandi classici a liberi contadini dai modi franchi, in fuga, per giunta, da un fratello egoista e correndo ogni tipo di avventura: questo genere di felicità - oggi impossibile, ieri a portata di mano purché intimamente liberi - Il Parnaso ambulante racconta. È una versione tenera, tra Mark Twain e Kerouac, del mito americano della frontiera e dell'individualismo ottimistico (e in effetti la protagonista si trasforma da massaia di campagna in intraprendente avventuriera, e poi ritorna, con una coscienza di sé rinnovata, casalinga, ma finalmente padrona del proprio destino). E un'idea, singolare in questo genere di storia, attraversa il racconto. Morley, da americano, non dubita che il modello compiuto di rapporto tra gli uomini sia lo scambio commerciale; ma il libro, merce tra le merci che attraversano le persone, ne conserva tutta la qualità e la sostanza umana. Sicché la vera missione on the road del Parnaso ambulante è «predicare l'amore per i libri e l'amore per gli esseri umani».

Non avevo idea di quale tipo di libro mi trovassi davanti quando scartai l'involto in cui era contenuto. Il nome, pure, era curioso: il Parnaso è il monte dedicato ad Apollo e alle Muse, simbolicamente la patria della poesia, dell'arte, della letteratura. La storia di un'altura "ambulante"? No, non era questo che mi attendeva, bensì la storia di un'avventura, di un'amicizia, della conquista della libertà e, infine, di un amore. Ma comincio dal principio. La protagonista di questa storia, narratrice in prima persona, è Elena McGill, trentanovenne nubile, governante di una casa nella campagna americana dei primi del Novecento, dove vive con il fratello Andrea, egoista e noto scrittore, sempre in viaggio, sempre intento in qualche attività in giro per il mondo.
La vita di Elena trascorre così, tra la cucina e la preparazione del pane, il riordino e la pulizia della casa, il nutrimento degli animali e la donna, ormai non più giovanissima, pensa che questo sia il suo destino. Forse nemmeno ci spera più in qualcosa di diverso. Un giorno, però, alla dimora si presenta un buffo signore, rosso di capelli, ma soprattutto di barba (tanto da meritarsi l'appellativo di "Barbarossa"), con un carretto trainato da un cavallo di nome Pegaso e accompagnato da un cagnolino. Si chiama Roger Mifflin e vorrebbe parlare con Andrea McGill, che è uno scrittore, per vendergli il "Parnaso ambulante".
Elena è incuriosita, tanto più che Andrea non c'è e si occupa lei stessa di parlare con l'ospite. Che cos'è il Parnaso? Si tratta proprio di quello strano carretto in cui è racchiuso un mondo intero: le ante si aprono e centinaia di libri sono lì stipati, mentre l'interno è occupato da una stanzetta e da un cucinino utile per gli spostamenti. Mifflin ha viaggiato per tanti anni con il Parnaso, fermandosi a vendere libri in ogni dove, diffondendo l'amore per la lettura. Ora vorrebbe solo ritirarsi a Brooklyn per poter scrivere un volume sulle sue avventure.
Elena ancora non lo sa, ma quell'incontro le cambierà la vita. La donna decide di comprare con i propri soldi il Parnaso, diventandone proprietaria. Sarà lei, e non il fratello, a viaggiare vendendo libri. Così, salta su e insieme a Mifflin si dirige verso il luogo in cui l'uomo prenderà il treno diretto verso New York.


Sinceramente non mi aspettavo di leggere un racconto carino, divertente e appassionante. Elena, single e rassegnata a fare da balia al fratello, si rimette in gioco, scoprendo il sapore della libertà, imparando a cavarsela da sola (egregiamente, considerando la vita svolta fino ad allora). 
Mifflin è quasi un mago: appare con il Parnaso proprio quando Elena ne aveva più bisogno e, ogni volta, si presenta nei luoghi in cui vi è necessità di un buon libro che trasmetta un insegnamento o qualche buona parola.
Il viaggio su quella carrozza piena di libri - e ammetto che mi piacerebbe proprio esistesse davvero! - si tramuta in un'avventura lungo i sentieri della campagna americana, nel bel mezzo dell'ancora incontaminata natura, condita dalle battute dll'autoironica Elena.
L'amore arriva anche per lei, ma la conquista più grande è quella della libertà, assolutamente non scontata, tanto più per una donna della sua epoca.
Vi consiglio di prendere qualche provvista e di salire sul Parnaso. Elena e Roger vi condurranno in giro per il mondo, vendendo libri e regalando emozioni letterarie a chiunque ne abbia bisogno.


«Quando si vende un libro ad una persona, non gli si vendono soltanto dodici once di carta con inchiostro e colla, gli si vende un’intera nuova vita. Amore e amicizia e umorismo e navi in mari di notte; c’è tutto il cielo e la terra in un libro, in un vero libro, intendo. […] È questa la cosa di cui ha bisogno questo paese: più libri!»

«Come vedete, non ero stato vaccinata contro l'amore da infatuazioni giovanili. Cominciai a fare la governante quando ero ancora una ragazzina, e una governante non ha molte occasioni per essere civettuola. Così ora mi sentivo colpita a fondo. È qui che una donna ritrova se stessa: quand'è innamorata. Non importa se è vecchia o grassa o casalinga o prosaica. Sente quel lieve palpito di cuore e casca giù come una prugna matura».

venerdì 12 novembre 2021

Recensione di "Le due culture" di C. P. Snow

Buon pomeriggio! Torno sul mio blog per parlarvi di una lettura un po' particolare, che non conoscevo. La signora che me ne ha parlato mi ha anche prestato il libro. Non si tratta di un saggio scorrevole, ma riflessivo: "Le due culture" di C. P. Snow.


C'è chi di letteratura non ne vuole sentir parlare, chi il latino lo considera una lingua morta, ma c'è anche chi con la matematica ci ha litigato da tempo e non ha mai compreso la fisica.
Le due culture citate da Snow sono esattamente la cultura umanistica e quella scientifica, in eterno contrasto tra loro. Un classico della storia: sin da quando ho memoria, sono sempre state "materie" contrapposte, ma non per questo totalmente separate. Tra le due infatti può esserci interazione.
Ho letto i commenti e le recensioni in merito al volumetto in questione: alcuni sostengono che gli scienziati cerchino la verità, mentre gli umanisti la bellezza. Ma se non fosse così? 
Posso guardarla dal mio punto di vista personale e sostenere che anche gli umanisti cerchino la verità. Sono un'archeologa. Di certo non sono insensibile davanti alla magnificenza di una scultura quando si presenta l'occasione di osservarla, o alla bellezza incarnata da un mosaico o da quegli affreschi che tanto amo, ma signori, forse sarete sorpresi: l'archeologo cerca la verità. Non si mette alla volontaria ricerca del dettaglio "bello". No, l'archeologo cerca la verità storica, tenta in ogni modo e con i mezzi posti a sua disposizione (si includano i c.d. mezzi "scientifici") di ricostruirla, anche quando le tracce sono veramente labili. Incrocia le fonti scritte e i reperti materiali per poterne venire a capo, e basa la sua esistenza sull'analisi degli strati di terra che sono contenitori di informazioni preziosissime.


Snow, ovviamente, generalizzava e forse, alla sua epoca, l'archeologo - che è la figura più scientifica tra quelle umanistiche - procedeva ancora secondo una concezione antiquaria.
Posso dire, però, che archeologo a parte, le due visioni di Snow non siano totalmente da considerare superate, anzi, basti pensare alla formazione in Italia. La suddivisione tra liceo classico e liceo scientifico (che per esperienza, molto spesso, di scientifico non ha nulla) fa sì che le neo matricole si dividano in chi ama la matematica, la scienza, la fisica e chi ama la letteratura, la storia, la storia dell'arte, disprezzandosi a vicenda. Vi dirò da soggetto atipico che, dopo aver frequentato il liceo scientifico si è iscritta poi ad archeologia (penando non poco con il latino e il greco), che la cultura scientifica e quella umanistica dovrebbero rivestire la stessa importanza perché entrambe contribuiscono a formare una persona intelligente e produttiva.
In Italia, attualmente, ci troviamo esattamente nella situazione che Snow descriveva per l'Inghilterra nel 1959: le persone dedite allo studio delle materie scientifiche studiano la metà degli umanisti, eppure trovano immediatamente impiego con retribuzione mediamente elevata; gli umanisti sono disoccupati o scarsamente retribuiti, pur avendo studiato oltre 10 anni.
Che cos'è che dovrebbe cambiare, si domandava Snow? La nostra educazione. Ebbene sì, bisognerebbe iniziare a capire che entrambi gli aspetti sono fondamentali per far sì che la società proceda e si evolva. Una "rivoluzione scientifica" che investe un X paese farà sì che quest'ultimo proceda tecnologicamente, ma dal punto di vista sociale e delle radici identitarie sarà scarso, anzi, rischierebbe di perderle tragicamente. Snow ne parlava tanti anni fa... adesso in Italia ne osserviamo le conseguenze.


E ancora: perché non integrare le due cose? Porto ancora il confronto con il mondo dei beni culturali. Se davvero funzionasse (ormai è sempre più un'utopia dal mio punto di vista, ma la speranza è l'ultima a morire...), potremmo osservare una sinergia tra scienziati e umanisti. Come? Per esempio, nell'individuazione di un'opera falsa non lavorano solo gli storici dell'arte o gli archeologi che, con la loro esperienza, potranno dare opinioni in merito, bensì anche esperti in diagnostica (fisici) che applicheranno strumentazioni e metodologie scientifiche volte a smascherare "l'inganno".


Potrei farne mille di esempi simili, ma il problema rimane solo uno: una integrazione dei due "mondi" culturali a livello centrale, partendo proprio dall'educazione. Sono sempre stata convinta che un liceo unico sia una soluzione. Perché approfondire più il latino e il greco tralasciando la matematica e la fisica? Si approfondiscano tutti gli aspetti per formare persone in grado di adattare le proprie abilità, persone in grado di comprendere le varie sfaccettature che compongono la realtà a 360°, senza giungere a criticare chi ama risolvere equazioni, o chi invece ama scrivere romanzi. E nel mondo del lavoro si collabori! Non è richiedendo "tuttologi" che si produce occupazione, né ricchezza sia dal punto di vista economico che culturale! Questo, purtroppo, siamo costretti - soprattutto noi della fascia 30-40 - a vederlo ogni giorno: richiesta figura con 10 anni di esperienza in economia, arte, museologia, in possesso di laurea magistrale, dottorato, scuola di specializzazione, etc., in grado di parlare francese, tedesco e inglese, automunito, che usi il PC a tutte le ore del giorno e della notte, capace di lavorare in team, ma anche in autonomia.
Chissà se Snow questo lo aveva previsto quando le parole della sua conferenza tenuta a Cambridge confluirono nel volumetto? Forse persino lui era ottimista nel volgere lo sguardo al futuro... e invece...


«Di fatto, la distanza che separa scienziati e non-scienziati è molto meno superabile fra i giovani di quanto lo fosse anche trent'anni fa. Trent'anni fa le culture non si rivolgevano da tempo la parola: ma almeno si sorridevano freddamente, attraverso l'abisso che le separava. Ora la cortesia è venuta meno, e si fanno le boccacce. Non si tratta soltanto del fatto che oggi i giovani scienziati sentono di far parte di una cultura in ascesa, mentre l'altra è in ritirata. Si tratta anche, che per essere brutali, del fatto che i giovani scienziati sanno che, con una laurea mediocre, otterranno un buon posto, mentre i coetanei e colleghi di Inglese o di Storia saranno fortunati se guadagneranno i due terzi. Nessun giovane scienziato provvisto di un certo talento penserebbe di non essere ricercato o di fare un lavoro ridicolo, come pensava il personaggio di Lucky Jim, e di fatto, una parte del malcontento di Amis e dei suoi compagni è il malcontento dei laureati in lettere sotto-occupati.
C'è una sola via per uscire da questa situazione: e naturalmente passa attraverso un ripensamento del nostro sistema educativo».

giovedì 4 novembre 2021

Recensione di "Più forte di ogni addio" di Enrico Galiano

Buongiorno amici, come state? Mentre questo autunno un po' piovoso (in alcune zone forse un po' troppo) ci accompagna insieme a una tazza fumante di té e alle tante sfumature di colore che assumono le foglie volteggianti per le strade, i buoni lettori non fanno mai a meno di un amico libro.

Il romanzo di cui stavolta vorrei parlarvi è "Più forte di ogni addio" di Enrico Galiano, edito da Garzanti. L'ho acquistato durante una serata piuttosto nostalgica a Nettuno, questa estate. Tra migliaia di libri, questo mi ha rapita immediatamente, forse perché rifletteva in parte il mio stato d'animo.


Trama: È importante dire quello che si prova, sempre. È importante dirlo nel momento giusto. Perché, una volta passato potremmo non trovare più il coraggio di farlo. È quello che scoprono Michele e Nina quando si incontrano sul treno che li porta a scuola, nel loro ultimo anno di liceo. Nina sa che le raffiche di vento della vita possono essere troppo forti per una delicata orchidea come lei: deve proteggersi ed è per questo che stringe tra le dita la collanina che le ha regalato suo padre. Per Michele i colori, le parole, i gesti che lo circondano hanno un gusto sempre diverso dal giorno in cui, cinque anni prima, ha perso la vista. Quando sale sul treno e sente il profumo di Nina, qualcosa accade dentro di lui: non sa che cosa sia, ma sente che lo sta chiamando.
Ogni giorno, durante il loro breve viaggio insieme, in un susseguirsi infinito di domande e risposte, fanno emergere l’uno nell’altra lo stesso senso di smarrimento. Michele insegna a Nina a non smettere di meravigliarsi ogni giorno. Nina insegna a Michele a non avere rimpianti, che bisogna sempre dare l’abbraccio e il bacio che vogliamo dare, dire le parole che non vediamo l’ora di pronunciare. Ma è proprio Nina, quando un ostacolo rischia di dividerli, a scegliere di non dire nulla. Di fronte al momento perfetto, quello in cui confessare che si sta innamorando, resta ferma. Lo lascia sfuggire. Nina e Michele dovranno lottare per imparare a cogliere l’istante che vola via veloce, come la vita, gli anni, il futuro. Dovranno crescere, ma senza dimenticare la magia dell’essere due ragazzi pieni di sogni.
Enrico Galiano, libro dopo libro, è diventato l’idolo dei lettori. Nessuno come lui sa parlare agli adolescenti e agli adulti attraverso il linguaggio universale delle emozioni. Dopo il successo di Eppure cadiamo felici, esordio più venduto del 2017, e di Tutta la vita che vuoi, per mesi in classifica, torna con un romanzo che ci ricorda che ogni momento è importante. Soprattutto quello in cui dire alle persone che amiamo che cosa significano per noi. Bisogna farlo subito, senza aspettare.

Non è il primo romanzo che leggo il cui protagonista è diventato cieco. Qualche tempo fa avevo letto "Una storia straordinaria" di Diego Galdino e, come nel caso del suo Luca, mi sono nuovamente ritrovata a riflettere quanto debba essere terribile ritrovarsi circondati da un mondo a colori che non puoi più vedere, da un mondo in movimento da cui a volte devi difenderti, da un mondo in cui sei comunque un diverso, non completamente autosufficiente. In quel mondo, però, le sensazioni sono tutto, si avvertono in modo migliore e forse si riesce a osservare, invece che guardare.
Michele, il diciottenne protagonista del romanzo, custodisce in sé il sogno di diventare un portiere di calcio e di parare rigori allo stadio San Siro di Milano. Un sogno, forse, tanto comune, quanto quasi impossibile, soprattutto se, a causa di un incidente, si perde la vista. Ogni cosa va in frantumi, un'esistenza giovane viene in qualche modo mutilata, ma è proprio da quell'esperienza che Michele riesce a trarre la forza di andare avanti, di vivere normalmente anche senza la vista. E ci riesce egregiamente, finché un giorno, in un vagone del treno che prende regolarmente per andare a scuola, avverte un profumo che non è solo quello: è mare, è il color indaco, è qualcosa che gli sconvolge il cuore e appartiene a una ragazza.


Lei si chiama Nina e ha il corpo tatuato di croci. Ha diciotto anni, ma ha sofferto tantissimo perché è una ragazza molto sensibile, "un'orchidea", e - si sa - chi è sensibile tende ad assorbire anche il dolore altrui, stando male egli stesso. I mondi di Michele e Nina si incontrano, apparentemente per caso, e sembrano essere così diversi l'uno dall'altra da non poter stare insieme. In realtà è proprio questo che è l'amore: due esseri diversi che, rispettandosi e completandosi, riescono a unirsi.
Proprio quando tutto sembra andare per il meglio (e Michele, ormai, è molto scettico su tutto), Nina scompare, senza nemmeno salutare il ragazzo. Al suo posto cominciano ad arrivare una serie di vocali che riveleranno un'amara e triste verità da cui scappare o da affrontare, sempre con immenso coraggio.


"Più forte di ogni addio" è un romanzo che invia un messaggio forte e chiaro: anche se si prova paura, che a volte è così forte da paralizzarci, bisogna trovare il coraggio di buttarsi, di farsi avanti, di lottare e di confessare i propri sentimenti. Non ci sono ostacoli troppo grandi per un amore autentico che non necessita di eclatanti dimostrazioni, ma solo della presenza, della vicinanza, dell'empatia.
Galiano esamina Michele e Nina mostrando di comprendere i ragazzi d'oggi (in fin dei conti è un professore, ma non tutti i professori sono capaci di stare vicino ai propri allievi), usando il loro linguaggio, scavando dentro il loro animo per far emergere i timori dell'età, a volte esorcizzandoli con una risata.
Michele è cresciuto in fretta, la cecità lo ha fatto maturare, "indurire" per così dire, ma per fortuna ha sempre lasciato aperte le porte del proprio cuore. Nina è fragile quanto un cristallo: è piena di crepe, a volte va in frantumi e per ricomporla ci vogliono molto tempo, costanza, pazienza, amore. Se loro due, così diversi e allo stesso tempo complementari, si sono incontrati, non è solo il caso ad aver dettato legge. Come dice Michele, che ha una mente matematica, due corpi finiranno per attrarsi a vicenda e incontrarsi secondo la gravità. Ed è allora un amore gravitazionale che li ha condotti a stare insieme.

Augurandovi buona giornata, vi lascio annotando alcuni estratti che ho particolarmente apprezzato.

«Avete mai provato a dire addio a qualcuno? Io ho una teoria: che gli addii siano il momento più bello di una storia d'amore. Quello più pieno, più intenso, più tutto. Pensateci: siete lì, state per salutarla per sempre. Sapete che fra qualche minuto non la rivedrete mai più, e con lei avete condiviso gli angolini più remoti del vostro stupido cuore: vi siete regalati sogni, desideri, paure e tutti i vostri deliri mentali e, tempo tre o quattro giri di lancetta, ciao. Saranno o non saranno i tre giri di lancetta più pieni di vita che avrete mai avuto? La risposta è sì. Sempre secondo la mia teoria, in un mondo perfetto, due che si amano - che si amano davvero dico - si stanno sempre dicendo addio.»

«L'amore dovrebbe ricordarsi più spesso che cos'è, nel profondo: un modo molto lungo, e molto dolce, di dirsi addio.»


«Il giorno in cui scopri di essere felice è anche il giorno in cui scopri quanto sei fragile.»

«"Tu senti tutto di più. Ti diranno che è una sfortuna, ma in realtà è un dono, perché ti basterà pochissimo, un gesto, anche una parola, qualcosa di piccolo, per essere felice. È un dono perché chi sente di più vuol dire che è più vivo: e tu sei la più viva di tutti!"»

«E quello che avevo capito è che l'amore, o almeno quello che vorrei io, è mettercela tutta per regalare la felicità a qualcuno, senza volere in cambio null'altro che sapere di esserci riusciti.»

«[...] l'amore non è parlare la stessa lingua. È, tipo, capirsi parlando due lingue diverse. [...] Non è un'anima gemella. È un'anima sola, divisa in due pezzi molto diversi.»
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