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domenica 6 novembre 2022

Recensione di "Le piccole libertà" di Lorenza Gentile

Buonasera a tutti dalla mia stanzetta gelida... cari amici, quanto mi manca l'estate! E qui, senza termosifoni, mi chiedo sempre se riuscirò a sopravvivere all'inverno. Una come me, che è un "animale a sangue freddo", necessita di sole, mare e tanto tanto calore. Non bastano le zuppe, le coperte, le bevande calde, quando i muri di casa sono impregnati di freddo e umidità, tanto da non permetterti di ragionare e i termosifoni resteranno spenti e/o tiepidi...

Ad ogni modo, una cosa sono riuscita a farla: leggere, avvolta sotto 5 strati di coperte, terminando il libro che avevo acquistato online con tanta ispirazione (e avevo ragione), dopo averlo cercato disperatamente nelle librerie fisiche di Roma, senza trovarlo.

Si tratta di "Le piccole libertà" di Lorenza Gentile. Lo conoscete?



Trama: Oliva ha trent'anni, una passione segreta per gli snack orientali e l'abitudine di imitare Rossella O'Hara quando è certa di non essere vista. Di lei gli altri sanno solo che ha un lavoro precario, abita con i genitori e sta per sposare Bernardo, il sogno di ogni madre. Nessuno immagina che soffra di insonnia e di tachicardia, e che a volte senta dentro un vuoto incolmabile. Fa parte della vita, le assicura la psicologa, e d'altronde la vita è come il mare: basta imparare a tenersi in equilibrio sulla tavola da surf. Ma ecco arrivare l'onda anomala che rischia di travolgerla. Dopo anni di silenzio, la carismatica ed eccentrica zia Vivienne – che le ha trasmesso l'amore per il teatro e la pâtisserie – le invia un biglietto per Parigi, dove la aspetta per questioni urgenti. Oliva decide di partire senza immaginare che Vivienne non si presenterà all'appuntamento e che mettersi sulle sue tracce significherà essere accolta dalla sgangherata comunità bohémienne che fa base in una delle più famose librerie parigine, Shakespeare and Company. Unica regola: aiutare un po' tra gli scaffali e leggere un libro al giorno. Mentre la zia continua a negarsi, Oliva capisce che può esserci un modo di stare al mondo molto diverso da quello a cui è abituata, più complicato ma anche più semplice, dove è possibile inseguire un sogno o un fenicottero, o bere vino sulla Senna con un clochard filosofo. Dove si abbraccia la vita invece di tenersene a distanza, anche quando fa male. E allora, continuare a cercare l'inafferrabile Vivienne o cedere al proprio senso del dovere e tornare a casa? E soprattutto: restare fedele a ciò che gli altri si aspettano da lei o a se stessa? Quando tante piccole libertà finiscono per farne una grande, rinunciarci diventa quasi impossibile.

Foto di Riccardo Bertolo (da: https://www.pexels.com/)

Una vita perfetta, in cui la più grande trasgressione consiste nel mangiare di nascosto snack orientali piccanti occultati in un cassetto; una vita in cui scegliere il corso di laurea voluto fortemente dai genitori, avere un lavoro apparentemente sicuro, stare con un uomo benestante con cui sposarsi, avere bambini e fare la mamma a tempo (quasi) pieno potrebbe essere per Oliva ciò che caratterizza la sua esistenza. Ma Oliva dentro di sé non ha mai voluto tutto ciò. Ha vissuto per accontentare gli altri e non se stessa. Ciò che aleggia nel suo animo è un perenne senso di colpa, accompagnato a una eterna insicurezza che la porta a non considerarsi mai all'altezza della situazione.
L'unica che l'ha sempre capita è zia Vivienne... scomparsa ormai da oltre 15 anni. Quando l'eccentrica donna - che vive periodi orientali, di meditazione, di avventura, indossa abiti colorati, ama l'arte e la libertà - le invia un biglietto del treno invitandola a raggiungerla a Parigi, Oliva non crede ai suoi occhi. I mille dubbi le affollano la mente - lascerò il lavoro per un po'? E Bernardo starà senza di me? Cosa dirò ai miei genitori, dato che mio padre ha litigato con zia Vivienne? -, ma alla fine parte per la Ville Lumière.
L'appuntamento è alla famosa libreria Shakespeare & Company, dove trova una bellissima compagnia di ragazzi ospitati lì da Sylvia Whitman, figlia di George, che in cambio di un alloggio, lavorano qualche ora immersi tra i libri, consigliando letture ai clienti curiosi. Tra questi c'è Victor, finlandese con occhi azzurrissimi e un basco sempre indossato, che si affianca ad Oliva come un angelo custode, guidandola per Parigi, tra vicoli e negozi, seguendo gli indizi lasciati dalla zia. Sì, perché Vivienne Villa non si è fatta trovare, sembra rimandare continuamente l'appuntamento con la nipote che, intanto, conosce Parigi... e conosce se stessa.


Oliva sa che le sue ansie erano causate da uno stile di vita che non le apparteneva, che non vuole essere perfetta, ma indossare un vestitino a fiori, scarponcini da Mary Poppins e dedicarsi alla pasticceria, che ama la libertà, non vuole necessariamente avere figli e sposarsi. E vuole rimanere a Parigi, in una città che ha sempre amato, con i suoi viali rosati in primavera e l'aria composta di sogni.
Oliva non lo sa, ma zia Vivienne le ha fatto il regalo più grande di tutti: quello di farle ritrovare la sua strada, riprendendo in mano la sua vita, seguendo i suoi desideri.
E dopo 15 anni le due riusciranno a incontrarsi?
Ho amato questa storia sin dalla sua copertina, dove una libreria colorata è abbinata a un curioso fenicottero rosa e agli alberi di ciliegio in fiore. La prima impressione è sempre quella giusta e il romanzo di Lorenza Gentile non mi ha delusa affatto, facendomi venir voglia di visitare Parigi in ogni suo angolo. Si tratta di una storia ironica e anche tanto dolce. Dietro Oliva potrebbe nascondersi ogni lettrice. E devo essere sincera, mi sono ritrovata tantissimo nella protagonista di "Le piccole libertà". Molte volte si dice "sì", invece di un bel "no" perché: potresti fare brutta figura; i tuoi genitori/amici/fidanzato/figli potrebbero offendersi; perché tutti fanno così; perché è consuetudine essere/fare così... ma poi i nostri desideri rimangono chiusi da qualche parte, bussando per emegere, mentre noi li forziamo a rimanere sigillati. Iniziano le ansie, le paure, le sedute dallo psicologo, quando bisognerebbe semplicemente ascoltarsi più a lungo, seguendo solo ed esclusivamente quel che dice il nostro cuore.
"Non si vive per accontentare gli altri" diceva la Regina Bianca ad Alice nel Paese delle Meraviglie. E tutti noi dovremmo tenerlo a mente, iniziando o riprendendo a volerci bene.

Foto di Ron Lach (da: https://www.pexels.com/)

Vi lascio con alcune frasi tratte dal libro e vi auguro buona serata!
«Potrebbe sembrare una tragedia, ma non lo è. Avere una passione ti fa sentire vivo, ti dà una ragione per stare al mondo, è una risorsa cui puoi attingere sempre. Credimi, è meglio avere una passione e non sentirsi all'altezza, piuttosto che non averne affatto e vivere una vita piatta, banale.»

«I libri sono ovunque: sugli scaffali che ricoprono le pareti, nelle nicchie del muro, impilati per terra, sul pianoforte al posto degli spartiti, sotto il pianoforte, sul davanzale della finestra. E' confortante l'idea di poterne prendere uno qualsiasi nel cuore della notte, divorarlo nella semioscurità, scoprire i pensieri di Shakespeare, Virginia Woolf, Yeats, Jane Austen... E' un luogo sicuro, penso, e sorrido senza un motivo preciso, solo perché ho davanti un altro giorno a Parigi.»

«Ogni amico rappresenta un nuovo mondo in noi, un mondo che non è ancora appparso finché egli arriva, ed è solo da questo incontro che nasce un nuovo mondo.»

«Perdersi fa bene, secondo la zia, aiuta a guardare le cose con occhi nuovi.»

«"Quello che voglio dirti", continua Vivienne, "è che abbiamo la possibilità di morire e rinascere in vita, tante volte quante vogliamo. Spesso ci capita di farlo senza neanche accorgercene: un grande dolore ci uccide e quando torniamo a vivere siamo persone diverse. Siamo persone altre, ma se nessuno intorno è disposto ad accettarlo, se nemmeno noi vogliamo questo cambiamento, ecco che lo soffochiamo e teniamo in vita una forma morta di noi. Ognuno di questi passaggi, invece, ognuna di queste rinascite, ci renderebbe più saggi, più umani".»

«C'è una sola cosa a cui sono rimasta sempre fedele: la mia libertà. Anche se voleva dire passare la vita da sola. Anche quando significava non essere capita, venire rifiutata, ferire gli altri. Non c'erano persone che avrei voluto, o potuto essere, se non chi ero io.»

venerdì 12 novembre 2021

Recensione di "Le due culture" di C. P. Snow

Buon pomeriggio! Torno sul mio blog per parlarvi di una lettura un po' particolare, che non conoscevo. La signora che me ne ha parlato mi ha anche prestato il libro. Non si tratta di un saggio scorrevole, ma riflessivo: "Le due culture" di C. P. Snow.


C'è chi di letteratura non ne vuole sentir parlare, chi il latino lo considera una lingua morta, ma c'è anche chi con la matematica ci ha litigato da tempo e non ha mai compreso la fisica.
Le due culture citate da Snow sono esattamente la cultura umanistica e quella scientifica, in eterno contrasto tra loro. Un classico della storia: sin da quando ho memoria, sono sempre state "materie" contrapposte, ma non per questo totalmente separate. Tra le due infatti può esserci interazione.
Ho letto i commenti e le recensioni in merito al volumetto in questione: alcuni sostengono che gli scienziati cerchino la verità, mentre gli umanisti la bellezza. Ma se non fosse così? 
Posso guardarla dal mio punto di vista personale e sostenere che anche gli umanisti cerchino la verità. Sono un'archeologa. Di certo non sono insensibile davanti alla magnificenza di una scultura quando si presenta l'occasione di osservarla, o alla bellezza incarnata da un mosaico o da quegli affreschi che tanto amo, ma signori, forse sarete sorpresi: l'archeologo cerca la verità. Non si mette alla volontaria ricerca del dettaglio "bello". No, l'archeologo cerca la verità storica, tenta in ogni modo e con i mezzi posti a sua disposizione (si includano i c.d. mezzi "scientifici") di ricostruirla, anche quando le tracce sono veramente labili. Incrocia le fonti scritte e i reperti materiali per poterne venire a capo, e basa la sua esistenza sull'analisi degli strati di terra che sono contenitori di informazioni preziosissime.


Snow, ovviamente, generalizzava e forse, alla sua epoca, l'archeologo - che è la figura più scientifica tra quelle umanistiche - procedeva ancora secondo una concezione antiquaria.
Posso dire, però, che archeologo a parte, le due visioni di Snow non siano totalmente da considerare superate, anzi, basti pensare alla formazione in Italia. La suddivisione tra liceo classico e liceo scientifico (che per esperienza, molto spesso, di scientifico non ha nulla) fa sì che le neo matricole si dividano in chi ama la matematica, la scienza, la fisica e chi ama la letteratura, la storia, la storia dell'arte, disprezzandosi a vicenda. Vi dirò da soggetto atipico che, dopo aver frequentato il liceo scientifico si è iscritta poi ad archeologia (penando non poco con il latino e il greco), che la cultura scientifica e quella umanistica dovrebbero rivestire la stessa importanza perché entrambe contribuiscono a formare una persona intelligente e produttiva.
In Italia, attualmente, ci troviamo esattamente nella situazione che Snow descriveva per l'Inghilterra nel 1959: le persone dedite allo studio delle materie scientifiche studiano la metà degli umanisti, eppure trovano immediatamente impiego con retribuzione mediamente elevata; gli umanisti sono disoccupati o scarsamente retribuiti, pur avendo studiato oltre 10 anni.
Che cos'è che dovrebbe cambiare, si domandava Snow? La nostra educazione. Ebbene sì, bisognerebbe iniziare a capire che entrambi gli aspetti sono fondamentali per far sì che la società proceda e si evolva. Una "rivoluzione scientifica" che investe un X paese farà sì che quest'ultimo proceda tecnologicamente, ma dal punto di vista sociale e delle radici identitarie sarà scarso, anzi, rischierebbe di perderle tragicamente. Snow ne parlava tanti anni fa... adesso in Italia ne osserviamo le conseguenze.


E ancora: perché non integrare le due cose? Porto ancora il confronto con il mondo dei beni culturali. Se davvero funzionasse (ormai è sempre più un'utopia dal mio punto di vista, ma la speranza è l'ultima a morire...), potremmo osservare una sinergia tra scienziati e umanisti. Come? Per esempio, nell'individuazione di un'opera falsa non lavorano solo gli storici dell'arte o gli archeologi che, con la loro esperienza, potranno dare opinioni in merito, bensì anche esperti in diagnostica (fisici) che applicheranno strumentazioni e metodologie scientifiche volte a smascherare "l'inganno".


Potrei farne mille di esempi simili, ma il problema rimane solo uno: una integrazione dei due "mondi" culturali a livello centrale, partendo proprio dall'educazione. Sono sempre stata convinta che un liceo unico sia una soluzione. Perché approfondire più il latino e il greco tralasciando la matematica e la fisica? Si approfondiscano tutti gli aspetti per formare persone in grado di adattare le proprie abilità, persone in grado di comprendere le varie sfaccettature che compongono la realtà a 360°, senza giungere a criticare chi ama risolvere equazioni, o chi invece ama scrivere romanzi. E nel mondo del lavoro si collabori! Non è richiedendo "tuttologi" che si produce occupazione, né ricchezza sia dal punto di vista economico che culturale! Questo, purtroppo, siamo costretti - soprattutto noi della fascia 30-40 - a vederlo ogni giorno: richiesta figura con 10 anni di esperienza in economia, arte, museologia, in possesso di laurea magistrale, dottorato, scuola di specializzazione, etc., in grado di parlare francese, tedesco e inglese, automunito, che usi il PC a tutte le ore del giorno e della notte, capace di lavorare in team, ma anche in autonomia.
Chissà se Snow questo lo aveva previsto quando le parole della sua conferenza tenuta a Cambridge confluirono nel volumetto? Forse persino lui era ottimista nel volgere lo sguardo al futuro... e invece...


«Di fatto, la distanza che separa scienziati e non-scienziati è molto meno superabile fra i giovani di quanto lo fosse anche trent'anni fa. Trent'anni fa le culture non si rivolgevano da tempo la parola: ma almeno si sorridevano freddamente, attraverso l'abisso che le separava. Ora la cortesia è venuta meno, e si fanno le boccacce. Non si tratta soltanto del fatto che oggi i giovani scienziati sentono di far parte di una cultura in ascesa, mentre l'altra è in ritirata. Si tratta anche, che per essere brutali, del fatto che i giovani scienziati sanno che, con una laurea mediocre, otterranno un buon posto, mentre i coetanei e colleghi di Inglese o di Storia saranno fortunati se guadagneranno i due terzi. Nessun giovane scienziato provvisto di un certo talento penserebbe di non essere ricercato o di fare un lavoro ridicolo, come pensava il personaggio di Lucky Jim, e di fatto, una parte del malcontento di Amis e dei suoi compagni è il malcontento dei laureati in lettere sotto-occupati.
C'è una sola via per uscire da questa situazione: e naturalmente passa attraverso un ripensamento del nostro sistema educativo».

sabato 19 settembre 2020

Recensione di "L'isola dell'abbandono" di Chiara Gamberale

Buongiorno lettori! Finalmente è arrivato il weekend di una settimana piuttosto faticosa... perché quando si ricominciano le attività è sempre un po' così, macchinoso, finché non si prende l'abitudine e si spinge sull'acceleratore. Visto che nello scorso agosto sono stata una lettrice provetta, proseguo a condividere con voi le mie letture.


Trama: Pare che l’espressione “piantare in asso” si debba a Teseo che, una volta uscito dal labirinto grazie all’aiuto di Arianna, anziché riportarla con sé da Creta ad Atene, la lascia sull’isola di Naxos. In Naxos: in asso, appunto. Proprio sull’isola di Naxos, l’inquieta e misteriosa protagonista di questo romanzo sente all’improvviso l’urgenza di tornare. È lì che, dieci anni prima, in quella che doveva essere una vacanza, è stata brutalmente abbandonata da Stefano, il suo primo, disperato amore e sempre lì ha conosciuto Di, un uomo capace di metterla a contatto con parti di sé che non conosceva e con la sfida più estrema per una persona come lei, quella di rinunciare alla fuga. E restare. Ma come fa una straordinaria possibilità a rivelarsi un pericolo? E come fa un trauma a trasformarsi in un alibi? Che cosa è davvero finito, che cosa è cominciato su quell’isola? Solo adesso lei riesce a chiederselo, perché è appena diventata madre, tutto dentro di sé si è allo stesso tempo saldato e infragilito, e deve fare i conti con il padre di suo figlio e con la loro difficoltà a considerarsi una famiglia. 
Anche se non lo vorrebbe, così, è finalmente pronta per incontrare di nuovo tutto quello che si era abituata a dimenticare, a cominciare dal suo nome, dalla sua identità più profonda… Dialogando in modo esplicito e implicito con il mito sull’abbandono più famoso della storia dell’umanità e con i fumetti per bambini con cui la protagonista interpreta la realtà, Chiara Gamberale ci mette a tu per tu con il miracolo e con la violenza della vita, quando ci strappa dalle mani l’illusione di poterla controllare, perché qualcosa finisce, qualcuno muore o perché qualcosa comincia, qualcuno nasce. E ci consegna così un romanzo appassionato sulla responsabilità delle nostre scelte e sull’inesorabilità del destino, sui figli che avremmo potuto avere, su quelli che abbiamo avuto, che non avremo mai. Sulle occasioni perse e quelle che, magari senza accorgercene, abbiamo colto.


Chiara Gamberale ci conduce all'interno del complesso universo psicologico che regola i rapporti umani, soffermandosi sull'abbandono: lasciarsi senza una spiegazione, senza un preavviso, di nascosto, o premeditandolo. L'abbandono porta con sé porzioni di ricordi, persino di anima. E lascia un vuoto, a tratti incolmabile. 
La protagonista della storia è Arianna, mamma di Emanuele, che custodisce dentro di sé una miriade di pensieri, sensazioni, ricordi che talvolta la confondono fino a farle smarrire la via: c'è Stefano, il suo ex, un uomo psicologicamente debole, dipendente da droghe e psicofarmaci, da tradimenti, che aveva bisogno di qualcuno che si occupasse di lui come una mare; c'è Di, il surfista di Naxos, che raccoglie l'animo ferito e sperduto di Arianna, dandogli nuova vita, amandola senza compromessi, limpidamente come l'acqua del mare che adora; c'è Damiano, lo psichiatra di Stefano, che poi diventa anche quello di Arianna, sposato e poi amante, infine padre; c'è Emanuele, i cui occhi si sono appena aperti su questo nuovo mondo, il riflesso del futuro in un piccolo corpo di neonato. 


Arianna ha dentro di sé tutto questo e molto di più. È una donna che spesso si è annullata per amore e che ora si chiede se sarà all'altezza di essere una buona madre. "L'isola dell'abbandono" è un romanzo psicologico, interiore, in cui echeggia Freud; un romanzo che rispecchia, almeno un po', ognuna di noi quando siamo alle prese con i nostri sogni e alla stesso tempo con la paura di trascurare le persone che amiamo. 

«Se sapessimo di che cosa abbiamo bisogno, non avremmo bisogno dell'amore…» 

«Evidentemente l'amore, pensa lei […], mentre ci prende, ci tira via da quello che eravamo fino a un attimo prima e inganna tutti i nostri buchi… Non solo ci fa credere che non verremo più abbandonati, ci fa anche dimenticare di esserlo stati – dal nostro passato amore, da un amico, un altro amico, da nostro padre, nostra madre, dalla speranza che le cose andassero diversamente da come sono andate» 

«Ecco perché mi sto innamorando pazzamente di te. Perché quando parliamo e quando facciamo l'amore noi ci intendiamo proprio […]. È così, è esattamente così anche secondo me: il problema è sempre uno solo, sempre quello: abbiamo paura di non essere amati. E allora ci rifugiamo nel nostro trauma, nelle nostre ossessioni. Ma lo capisci il paradosso? Non lo vedi che, proprio perché ce ne stiamo lì, accartocciati nel nostro mito, nessuno ci potrà mai conoscere per quello che siamo e dunque ci potrà amare? Non è evidente che mentre crediamo di difenderci ci stiamo mettendo definitivamente a rischio?» 


«Costanza: quella che ci vuole per riuscire ad abbandonarsi. E però non abbandonare». 

«Era semplicemente un uomo. E lei lo aveva amato, se amare significa… che cosa significa amare? Significa esserci». 

«Sei proprio convinta che un lungo matrimonio tiri fuori chi siamo, mentre un amore che non è stato destinato a durare no, non lo possa tirar fuori? E se invece la nostra verità più profonda non fosse che un frammento e avesse a che fare proprio con quella purezza, con quello splendore divino?».

martedì 15 settembre 2020

Recensione di "La donna dei miei sogni" di Nicolas Barreau

Buonasera amici, come state? Approfitto di un momento di relax per condividere con voi la recensione di un altro romanzo divorato durante l'estate.


Trama: "Oggi ho incontrato la donna dei miei sogni. Era seduta al Café de Flore, al mio tavolo preferito. E mi sorrideva. Purtroppo non era sola. Un uomo piuttosto attraente le stava accanto e le stringeva la mano. Sono un libraio e, se hai a che fare con i libri tutti i giorni, se vivi immerso nei romanzi, a un certo punto inizi a credere che siano possibili molte più cose di quanto comunemente si creda. Forse sono un inguaribile romantico, ma chi dice che quello che capita in un libro non possa succedere anche nella realtà? Ed ecco infatti che qualcosa è successo davvero. La donna dei miei sogni si è alzata e ha lasciato un biglietto sul mio tavolo. Un nome, un numero di telefono. Nient'altro. Il mio cuore ha fatto un salto. E così sono iniziate le ventiquattro ore più eccitariti della mia vita." Ma quel che promette di essere un romantico rendez-vous si trasforma ben presto in una cocente delusione: il numero di telefono non si legge bene e Antoine, l'intraprendente proprietario della Librairie du Soleil a Saint-Germain-des-Prés, deve buttarsi in una rocambolesca avventura per ritrovare la donna con l'ombrello rosso che lo ha stregato.

Finalmente una storia d'amore carina, né banale, né impegnativa, né talmente spinta da far invidia alle note "Cinquanta Sfumature"! 

Antoine è un libraio (moro con occhi azzurri) nella romantica Parigi. Ha sempre letto romanzi d'amore senza mai trovare riscontro nella realtà. Un giorno, entrando nel Café per la pausa pranzo, trova il suo tavolo preferito occupato da una donna sulla trentina, capelli lunghi biondo miele e occhi con pagliuzze dorate. Basta uno sguardo e Antoine sa di trovarsi davanti la donna della sua vita, quella che ha sempre sognato. Il colpo di fulmine scatta anche per lei che, uscendo dal locale con un uomo (dalle sembianze di Piton, il personaggio di Harry Potter), lascerà un biglietto ad Antoine con su scritto il nome Isabelle e un numero di telefono. 


Antoine vuole vederla, è convinto che la storia con Isabelle andrà a buon fine perché si è già innamorato. Peccato che il biglietto sarà rovinato da un escremento rilasciato da un uccellino di passaggio e che l'ultima cifra sia così scomparsa. Comincia quindi l'avventura di Antoine, che effettua mille chiamate cercando la combinazione telefonica corretta, mettendo in linea vari indizi e paranoie, finendo per inseguire la bella Isabelle per tutta Parigi. 


Una storia a lieto fine, con tanto umorismo e tenerezza, alla ricerca dell'amore a prima vista che si rivela non essere un semplice sogno, ma la stupenda realtà. 
Consigliato per ridere e sperare che anche le cose più impossibili,a volte, possano avverarsi con l'aiuto di tanta fortuna e di molta perseveranza. Terminato in 1 giorno, questo romanzo di Barreau tiene letteralmente incollati alle pagine, incuriosendo il lettore sulla sorte del goffo e innamorato Antoine. 


«In fin dei conti, l'unica cosa che resta sono i ricordi. Ma i ricordi di ciò che non sarebbe mai potuto accadere portano inevitabilmente con sé il lieve rimpianto dei desideri non realizzati. Come se la vita non avesse mantenuto le sue promesse».

lunedì 9 marzo 2020

Recensione di "Tu, mio" di Erri De Luca

Buon lunedì amici e, anche se non è proprio un buongiorno con il clima che tutti avvertiamo, cerchiamo di osservare gli aspetti positivi in questa enorme difficoltà.
Stare in casa implica delle limitazioni: non vedere gli amici, non respirare aria nuova, non sgranchire le gambe con una bella passeggiata in centro. Eppure stare in casa ci permette di dedicarci ai nostri hobby, di stare vicino ai nostri familiari, di riposarci, studiare, guardare la tv, di leggere, insomma di rallentare il ritmo, di riprendere TEMPO, quello che molto spesso non troviamo. Non dico che sarà facile, ma sicuramente sarà utile a noi tutti.

Bene, visto che si accennava alla lettura, ho terminato "Tu, mio" di Erri De Luca, volumetto edito da La Feltrinelli, acquistato sull'onda di un pomeriggio un po' malinconico in realtà. Avevo letto già "I pesci non chiudono gli occhi" di De Luca, dal tono poetico e leggero, che riconduceva alla salsedine del mare e delle estati passate.



Trama: Il ragazzo e il mare: l'avventura estiva di un adolescente del dopoguerra, l'incontro con la pesca, e con una ragazza più grande, col suo segreto, con il suo dolore per la perdita del padre in guerra, prima della fine delle vacanze. C'è un'estate brusca nell'età giovane in cui s'impara il mondo di corsa. In un'isola del Tirreno, in mezzo agli anni cinquanta del secolo, un pescatore che ha conosciuto la guerra e una giovane donna dal nome difficile, senza intenzione trasmettono a un ragazzo la febbre del rispondere. Qui si racconta una risposta, un eccomi, decisivo come un luogo di nascita.

Erri De Luca riprende i suoi ricordi, portando per mano il lettore sull'isola di Ischia o Procida (non è ben specificato) in cui trascorse l'estate dei suoi 16 anni, durante gli anni Cinquanta, quelli di uno spietato dopoguerra che ha lasciato il terrore negli occhi di chi ha combattuto e un paradossale rallentamento nel riprendersi la propria normale esistenza. Poi c'è lui, il giovane Erri, che trascorre quel mese in compagnia di Daniele e dei ragazzi più grandi, di Nicola il pescatore e dello zio sulla barca, e infine di Caia, la ragazza ebrea romena, un amore impossibile, giovane donna tormentata da un recente terribile passato da cui è riuscita a fuggire.


Il mare, a volte calmo e trasparente, talvolta in burrasca, riflette esattamente lo stato d'animo del narratore che si trova d'un tratto a crescere, facendo i conti con i tormenti dell'adolescenza quando il corpo e le esigenze di un bambino lottano con crescenti e sconosciuti desideri di un uomo adulto.
Caia, Haiele (il cui diminutivo è Haia), gioca un ruolo importante: verso di lei il giovane Erri avverte un crescente desiderio di baciarla, ma allo stesso tempo prevale l'istinto protettivo dopo aver conosciuto la sua storia, quella di una ragazza sfuggita alle persecuzioni naziste, quella di una ragazza di 20 anni ormai orfana di ogni affetto. Mai dimenticherà il volto e gli occhi del padre prima di salire verso un treno che lo avrebbe portato via per sempre... e Caia sa che il suo "tate", ogni tanto, viene a trovarla, assumendo anche corpi e forme che non immaginava. La ragazza è infatti convinta che nel corpo di Erri ci sia suo padre. Ed Erri, forse, si convince per farle piacere, o forse è veramente quel fenomeno paranormale che avviene e che fa sovrapporre la sua personalità al padre di Haiele.
"Tu, mio" gli ripete la ragazza, mentre lui la bacia dolcemente all'attaccatura dei capelli, sulla fronte.


Non sono gesti da ragazzo innamorato, quanto da padre protettivo, in contrasto netto con quelle emozioni acerbe provate invece per la sua coetanea Eliana, un amore che sta sbocciando timidamente, compiendo il primo passo dell'amicizia.
Infine, vi è la curiosità verso la storia, nei confronti di quel passato accennato e mai completamente raccontato, della guerra appena trascorsa e trascritta nei libri, di tutti quegli eventi che il giovane Erri vorrebbe tanto poter cambiare... ma che, sull'onda della rabbia, alla fine replica. 
Un giorno a pesca cercando di tirar sulla barca quella grossa cernia, uno immerso in acqua aspirando l'odore di salsedine e respirando quello della resina di pino, fino ad avvertire i brividi scatenati dai nascenti sentimenti in contrasto con il caldo vento di Scirocco che fa terminare quella particolare estate: è qui che Erri ci trasporta nelle 114 pagine del suo libro.


Nonostante lo abbia trovato indubbiamente bello, a tratti riflessivo e coinvolgente (io adoro il mare e l'estate), sarò sincera, mi pare scorra troppo lentamente, talvolta in maniera macchinosa. Avevo apprezzato molto più lo stile poetico ed evocativo adottato per "I pesci non chiudono gli occhi" che divorai letteralmente.
Vi lascio con qualche breve estratto. Buone letture a tutti voi!

«Ci si innamora così, cercando nella persona amata il punto a nessuno rivelato, che è dato in dono solo a chi scruta, ascolta con amore. Ci si innamora da vicino, ma non troppo, ci si innamora da un angolo acuto un poco in disparte in una stanza, presso una tavolata, seduto in un giardino dove gli altri ballano al ritmo di una musichetta insulsa e decisiva che fa da colla di pesce per una faccia che si appunta a spilli sul diaframma del petto.»


«Gli innamorati pregano con una parola sola, un nome. Non lo scrivevo, non lo pronunciavo, non dovevo compromettere il segreto lasciando tracce.»

«Guardò in cielo il maestrale che strapazzava nuvole mostrando azzurro negli strappi.»


«"Voglio tentare di stare con te. Voglio credere che è possibile, anche se non per ora, anche da lontano. Ho bisogno di aspettare qualcuno che non somigli a nessuno e tu sei questo".»

«"Fai bene a informarti sul recente passato, è un tuo diritto e anche un interesse che altri tuoi coetanei non hanno. Però ho l'impressione che tu non lo faccia in modo sano. Insomma è buffo dirlo, ma mi sembra che tu voglia intervenire sul passato per correggerlo. Tu lo critichi con l'intento di cambiarlo, ma non si può. Nemmeno un Dio può più farci niente. E' già molto proteggere il presente dagli sbagli, non fare un male da dover riparare.»

lunedì 16 dicembre 2019

Recensione di "Mantieni il bacio. Lezioni brevi sull'amore" di Massimo Recalcati

Scrivo in notturna, mentre noto che sui vetri si forma la condensa. E' freddo fuori, siamo ormai a dicembre, le luci inondano le strade del centro di Roma, ma come sempre il Natale si sente meno. Eppure dovrebbe essere una festività calda, felice, con un pizzico di dolcezza, mi ripeto. Ma io sono la prima a non avvertire nulla di tutto ciò. Anche per il Natale, forse, esiste un tempo per viverlo appieno. Non basta il giorno in sé, ma occorrono vari elementi e bisogna far sì di possederli tutti per tornare a pensare che si tratti di un periodo magico.

Passeggiando, dunque, per Roma, qualche giorno fa, sono entrata in libreria. C'era gente che iniziava a radunarsi per la presentazione di un libro. A me invece interessava solo un po' di silenzio e l'odore di carta. Cercavo ispirazione nelle copertine nuove, nelle immagini che si susseguivano evocative finché, non trovando nulla che facesse al caso mio, mi venne alla mente una lettura, "Mantieni il bacio. Lezioni brevi sull'amore" di Massimo Recalcati. Ricordavo perfettamente la foto di un uomo e una donna d'altri tempi che si tenevano per mano, guardandosi negli occhi, seduti nel vagone di un treno.
Nonostante non sia proprio nel mio miglior momento romantico, ho deciso di acquistarlo e leggerlo per cercare spiegazioni, più che risposte. Queste ultime può averle solo il singolo a seconda della propria esperienza.


Trama: Perché “ancora” è la parola dell’amore. Chi ha detto che l’empatia sia necessaria per fondare una buona relazione? Che l’amore sia anzitutto dialogo? E se quelle del “dialogo” e dell’“empatia” fossero delle parole d’ordine finalizzate proprio a scongiurare l’alterità dell’Altro, la sua radicale e irriducibile differenza, il suo essere straniero? Se la condizione di ogni amore non fosse dialogo ma l’incontro con un segreto indecifrabile, con un mistero che resiste a ogni sforzo empatico? Lacan affermava che il rapporto sessuale è impossibile, è sempre fallito. Non posso mai sentire quello che l’altro sente, confondermi, coincidere, essere lui. Ma è proprio dall’esperienza di questo fallimento che diviene possibile l’amore come amore per l’eteros. Si tratta di provare a condividere proprio l’impossibilità di condividere il rapporto. Se ti amo non è perché dialogo con te ma perché in te c’è qualcosa di te e di me che mi sfugge, impossibile da raggiungere. Scopro, cioè, in te un segreto che mi supera e si distanzia da ogni empatia possibile. Per questo Lacan identificava l’amore con la donna, se la donna è – come è – il nome più radicale del segreto impossibile da decifrare. In una ricerca intima e profonda, Massimo Recalcati indaga il miracolo dell’amore, il sentimento più misterioso di tutti. “La fedeltà non è una prigione, né una gabbia,” spiega, “se si trasforma in un sacrificio bisogna liberarsi. La fedeltà diventa una postura dell’amore perché trasforma lo stesso in nuovo, non c’è bisogno di andare altrove per trovarlo. Come quando guardiamo un’alba sorgere: l’abbiamo vista mille volte ma non ci stancheremmo mai di ammirarla, ogni volta ci appare diversa, nuova.”

Ricordo che Erri de Luca, nel suo libro "I pesci non chiudono gli occhi", scrisse riguardo la bellezza del verbo "mantenere". E qui Recalcati "Mantiene il bacio". Come si può mantenere un gesto tanto dolce, passionale, intimo come il bacio? Come si riesce a mantenere il legame che si crea tra due anime tramite il contatto dei corpi, delle bocche, delle lingue?

«Il bacio è forse l'immagine che, più di ogni altra, condensa la bellezza e la poesia dell'amore. [...] Se non c'è amore senza dichiarazione, non c'è amore senza bacio».


Mi tornano in mente anche i tempi andati, quando ero solo una studentessa delle scuole medie e il nostro professore di religione (eh sì) ci parlò della differenza tra tanti tipi di amore. Ci chiese "Ragazzi, quale dei due è il vero amore: quello dei genitori verso un figlio, o quello di una donna verso un uomo?".
Non ci pensai su due volte. Avevo le idee precise tanti anni fa, forse perché ero giovane e ancora non avevo incontrato chi davvero mi avrebbe far potuto battere il cuore, per poi puntualmente spezzarmelo. 
Risposi io: "Quello di una donna verso un uomo".
Il professore sorrise e mi chiese perché. Ero timida, già era un passo avanti l'aver alzato la mano per rispondere, dato che tendevo a confondermi con l'ambiente circostante. 
Proseguì lui: "L'amore di una madre per un figlio si chiama affetto; quello di una donna per un uomo è un amore intenso, diverso".
Ovviamente non andò oltre. Forse ai tempi d'oggi avrebbe persino iniziato una lezione di educazione sessuale, ma all'epoca no, ancora si tendeva a rimanere piuttosto neutrali in merito a certi discorsi.
E' proprio qui, però, che si inseriscono le riflessioni di Massimo Recalcati. Il bacio è l'inizio di tutto quel che si può chiamare amore nel vero senso della parola. Ogni bacio è una silenziosa dichiarazione d'amore, un "ti amo" scaturito dal cuore. Ed è il bacio d'amore quello che si ricorda chiudendo gli occhi, rivivendo ogni singola sensazione, ogni istante trascorso a intrecciare il proprio essere con l'altra persona, a respirare il respiro dell'altro.


Il bacio non unifica. Mantiene, infatti, due corpi separati, due entità distinte che trovano, in quel momento così intimo, un'intesa. E' proprio questo, però, la premessa per un amore probabilmente duraturo. Solo ed esclusivamente questa. 
L'amore non deve essere possessivo, altrimenti sfocia nella violenza; l'amore non deve annullare l'altro, ma lasciare all'altro la propria individualità e libertà; l'amore non deve riversarsi solo ed esclusivamente sui figli, ma deve proseguire ad essere provato per il partner, mentre si sarà consapevoli del legame filiare che, un giorno, si spezzerà, regalando indipendenza; l'amore è desiderio, brucia, ustiona e dura a lungo... ma forse non è per sempre, come tutti vorrebbero farci credere a cominciare dalle promesse matrimoniali; l'amore è anche separazione, laddove è meglio non farsi più del male e proseguire la propria vita singolarmente.


Non si possono tenere lezioni sull'amore. Questa è la premessa di Massimo Recalcati, ma ci si può solo limitare a riflettere, a cercare di capirne i meccanismi che hanno comunque e sempre una logica diversa a seconda della persona. L'amore è soggettivo e, proprio per questo, sempre differente. L'amore prima o poi capita a tutti ed è bello viverlo, che duri o meno. Forse siamo fatti per amare e l'amore «ci salva ogni volta dalla ferita del mondo».

«Mantengo il bacio nel buio della notte e nella luce del giorno. Lo mantengo nel tempo che passa. Lo mantengo nel furore acceso del mondo, nella sua ferocia. Gli amanti scavano il loro nascondiglio, la loro pace nella guerra, nell'infinito dolore dell'essere. Quando si baciano spengono il rumore del mondo, infrangono la sua legge, sequestrano il tempo dal suo movimento ordinario. Cadono insieme nelle loro lingue distinte e abbracciate».

giovedì 14 novembre 2019

Recensione di "I pesci non chiudono gli occhi" di Erri De Luca

Buongiorno a tutti, lettori! Come state? In un attimo di pausa, voglio portarvi verso Napoli e la sua spiaggia, di preciso nel periodo dell'immediato dopoguerra, dove un bambino di 10 anni era in vacanza con la sua famiglia, in un caldo settembre italiano.


Trama: A dieci anni l'età si scrive per la prima volta con due cifre. È un salto in alto, in lungo e in largo, ma il corpo resta scarso di statura mentre la testa si precipita avanti. D'estate si concentra una fretta di crescere. Un uomo, cinquant'anni dopo, torna coi pensieri su una spiaggia dove gli accadde il necessario e pure l'abbondante. Le sue mani di allora, capaci di nuoto e non di difesa, imparano lo stupore del verbo mantenere, che è tenere per mano.


Perché quella ragazzina non gioca come gli altri, ma legge libri gialli? Il piccolo autore è fermo sulla spiaggia, cerca di completare la settimana enigmistica, eppure ogni tanto tira su lo sguardo e incrocia quello di una bambina che, altrettanto curiosa, ricambia.
Quell'estate è diversa per Erri che, compiuti 10 anni, si sente inadatto in un corpo che non lo rappresenta: anima e "involucro" non vanno d'accordo perché non crescono di pari passo. Mentre questo conflitto intimo è in atto, per la prima volta in vita sua, assapora qualcosa di nuovo, un sentimento. Mai prima di allora aveva potuto tollerare il verbo "amare" che è sempre presente tra le pagine dei romanzi, eppure adesso quello stesso verbo inizia ad assumere contorni che, seppur sfocati, gli danno consistenza, materializzandosi in quella ragazzina così diversa da tutti gli altri.


Tra un ghiacciolo e una chiacchierata sul comportamento degli animali, che la ragazzina adora osservare e studiare, i due bambini scopriranno cosa significa "mantenere", che comporta la promessa di "tenere per mano".
L'amore, però, fa conoscere anche il dolore. Per amore bisogna lottare. Ed è questo che quel ragazzino di 10 anni comprende quando gli altri bambini della spiaggia, invidiosi del suo rapporto con la ragazzina, lo prendono di mira, fino a pestarlo. Lui non è capace di reagire, né di fare del male, lui è bravo a nuotare, a fondersi con l'acqua, ma non ad usare violenza. La ragazzina, che non è come tutti gli altri, sceglie comunque lui. A lei non interessano gli stupidi.
Con una dolcezza stravolgente, accadrà anche il primo bacio, ad occhi aperti per il giovane Erri, come i pesci che non chiudono gli occhi.


L'episodio di un'estate è intervallato da ricordi di un'infanzia a tratti dolorosa, di un padre ormai assente, partito per l'America per cercare lavoro, e della madre, rimasta con Erri e la sorella che decide di rimanere a Napoli senza raggiungere il marito; un'infanzia che parla di mare, di pesca all'alba, di reti e di ami; e poi crescendo, ormai adulto, del lavoro in fabbrica.


Una trama semplice, composta di ricordi di una vita, eppure è lo stile di Erri De Luca ad essere particolarmente evocativo, direi poetico e delicato. Sfogliando le pagine si ode il suono del mare e dell'infrangersi tranquillo delle onde sugli scogli, della chiglia delle barche che atterra ritimicamente sulla superficie dell'acqua, il chiacchiericcio dei bagnanti, si avvertono i granelli di sabbia sotto i piedi, l'odore di salsedine e quello stampato della settimana enigmistica; ma anche le tenere carezze di una madre, una sordida nostalgia per il padre, le mani ruvide, callose e gentili del pescatore, il sapore di qualcosa di nuovo, come può essere il primo bacio di ognuno di noi. E infine, la malinconia per una vita che avrebbe potuto essere e non è stata... un'esistenza al fianco della ragazzina.

Non conoscevo Erri De Luca, pur avendone sentito parlare. Era tra gli autori che avrei voluto scoprire, i suoi libri tra quelli in lista, ma non avevo ancora sfogliato nulla realmente.

Vi lascio con qualche frase, anche se è difficile scegliere i pensieri più belli.

«Il volersi bene si costruisce. Ma l’amore quello vero, no. L’amore lo senti immediato, non ha tempo. È dire "ti sento". Un contatto di pelle, un abbraccio, un bacio. Mantenersi, il mio verbo preferito, tenersi per mano. Ti può bastare per la vita intera, un attimo, un incontro. Rinunciarvi è folle, sempre e comunque.»


«Quell’amore pulcino conteneva tutti gli addii seguenti. Nessuna si sarebbe fermata, non avrei conosciuto le nozze, niente fianco a fianco davanti a un terzo che domanda: “Vuoi tu?”. L’amore sarebbe stato una fermata breve tra gli isolamenti. Oggi penso a un tempo finale in comune con una donna, con la quale coincidere come fanno le rime, in fine di parola.»


«I baci spingevano dai talloni puntati nella sabbia. Risalivano le vertebre fino alle ossa del cranio, fino ai denti. Ancora oggi so che sono il più alto traguardo raggiunto dai corpi. Da lassù, dalla cima dei baci si può scendere poi nelle mosse convulse dell’amore.»


«Si amavano quei due, si regalavano libri.»




giovedì 14 marzo 2019

Milano: diario di viaggio tra l'architettura contemporanea e la storia dell'arte

Era dal 2013 che non tornavo a Milano, la cosiddetta città grigia. Sarà, ma la nebbia che la contraddistingue secondo le dicerie non la incontro mai, in favore di giornate soleggiate o al massimo con qualche nuvoletta passeggera.
Ho un bel ricordo legato a quella città: la prima volta in cui vi ho messo piede, scendendo alla Stazione Centrale, è stato nel marzo 2012... ed era proprio l'8, come stavolta.
Mi sono meravigliata dell'ordine e della pulizia, io che dovevo percorrere la zona di Termini tutti i giorni e che notavo il degrado intorno a me. Sono trascorsi anni e trovo che la situazione sia notevolmente peggiorata a Milano: adesso è la Stazione Centrale ad essere impraticabile, soprattutto Piazza Duca d'Aosta. Il motivo? Ne hanno parlato già troppe volte ai telegiornali e rischierei di essere ripetitiva, ma la questione sicurezza è stata forse presa un po' sottogamba.



In ogni caso, dicevo, a Milano 2012 ho legati dei bei ricordi: la canzone di Bruno Mars, "When I was your man", che risuonava nella piazza del Duomo, la visita a tanti bei siti archeologici e storico-artistici, risate con quella che all'epoca era la mia migliore amica dell'università e qualche farfalla di troppo che svolazzava libera nello stomaco durante una cena a lume di candela a base di risotto ai funghi porcini. Sono istanti, ritagli di tempo, oggetti che nella mente brillano come stelle, anche se poi nel complesso ricordo pure di essermi innervosita per altre questioni più banali e, ora posso dirlo, del tutto insignificanti.
Nel 2013 sono tornata per tentare un colloquio per un assegno di ricerca, il cui esito fu abbastanza scontato, ma rimasi una giornata e mezza.
Stavolta sono stati 3 giorni pieni con la mia famiglia e, guidata in parte da me stessa che avevo "preparato" le mete da visitare e in parte dalla mia architettonica sorella minore, sono riuscita a vedere altre parti della città che non conoscevo, ripercorrendo anche tappe già effettuate.
Durante la mattinata dell'8 marzo, appena giunti in Stazione Centrale, consumata una veloce colazione e depositati i bagagli in albergo non troppo distante da lì, ci siamo diretti verso Porta Garibaldi e il Bosco Verticale. Non ci ha ovviamente fermati lo sciopero nazionale dei mezzi. I due grattacieli dell'Eur, cui ormai l'occhio si è abituato, non sono nulla in confronto all'impatto prodotto dal grattacielo vetrato della Unicredit e soprattutto dai due palazzi che costituiscono il Bosco Verticale di Stefano Boeri. 


Sembra di entrare in un'altra realtà, in una parte di quella NYC che è stato possibile vedere solo nei film (o almeno, per me è così... oltre oceano non sono mai andata). Non negherò che il Bosco Verticale mi abbia incredibilmente ricordato la Torre del Vento nel romanzo di Licia Troisi "Nihal della Terra del Vento". Alberi e piante, arbusti e rampicanti crescono nei balconi rendendo quella costruzione in cemento armato qualcosa di forse più sostenibile, quasi come se l'uomo si scusasse con la Terra per avervi posto quell'assurda colata grigia tramite l'apposizione del verde che produce ossigeno, quel verde che spesso viene distrutto e che, al contempo, è a lui necessario per vivere.



Poco distante dal parchetto totalmente riqualificato, con giochi per bambini e aiuole coltivate con piante anche aromatiche, vi è piazza Gae Aulenti che risplende grazie allo specchio d'acqua e alla cascata risucchiata dal terreno, mentre un gruppo di lampioni disposti come giunchi emergono all'orizzonte.



Ma si prosegue nel tour architettonico perché non troppo distante, nei pressi della Porta Garibaldi, sorge la Fondazione Feltrinelli con un palazzone vetrato e triangolare, dalla forma decisamente particolare. In alto si vedono gli uffici e non nego di essermi immaginata riunioni intorno a tavoli circolari proprio come nei film americani; al piano terra, invece, è collocato un punto Red - a Roma ne ho scoperto uno di recente in via Tomacelli - ovvero un bar/bistrot con libreria. Un ottimo luogo di ristoro per il corpo e la mente!



Mentre si torna indietro cercando un posto economico dove riposarsi un po' e fare uno spuntino, mi soffermo a osservare la primavera che è ormai sbocciata anche qui, a dispetto del freddo venticello che ogni tanto prova a farmi rabbrividire.


Ricontrollo il programma: devo mettere la spunta accanto alla Pinacoteca di Brera! Era rimasta in lista da anni e vi è conservato il mio dipinto preferito "Il bacio" di Francesco Hayez. Gambe in spalla, ma stavolta si prende la metro (che, attenzione, passa nonostante lo sciopero!). La fermata più vicina al polo museale è Montenapoleone, poi una breve passeggiata e si volta l'angolo. Eccoci qui, davanti al palazzo che accoglie anche l'Accademia di Belle Arti. E' la Settimana dei Musei, molti turisti ma pure gli stessi milanesi colgono l'occasione per entrare e prendersi un attimo di pausa dalla frenetica vita di tutti i giorni, soffermandosi davanti alle opere d'arte, entrando in più dimensioni, cercando di comprendere l'artista, ammirando le pennellate e apprendendo tasselli aggiuntivi di storia.



Ecco che alcuni quadri osservati solo sui libri sono improvvisamente davanti a me. E' un'emozione particolare, come avessi incontrato un personaggio famoso o rivisto un amico. Tra questi c'è il  "Lamento sul Cristo morto" di Andrea Mantegna e tanti altri dipinti, a volte forse troppi per poter essere apprezzati singolarmente. 



Occorrerebbe una giornata intera solo per trascorrere una decina di minuti almeno davanti ad ogni opera d'arte. L'entusiasmo, però, si spegne d'improvviso, quando non riesco a trovare né "Il bacio", né "La Madonna di Brera", né il "Ritratto di Alessandro Manzoni". Eppure sono sicura... devono essere qui! Chiedo a un sorvegliante e la spiegazione che mi viene fornita non è accettabile: dato lo sciopero, soprattutto quello dei mezzi, il personale è ridotto a 7 persone e non hanno potuto aprire tutte le sale. Sono sconcertata e con me altri turisti venuti da molto più lontano. Siamo invitati a tornare durante i giorni successivi, ma non tutti possono, nemmeno io che non ero a Milano solo per fare la turista, ma per altre ragioni familiari. Il mio dipinto posso vederlo solo da una vetrata, entrando nel piccolo bar... magra consolazione.


Tornando verso la metro, mettiamo in programma una breve visita alla Basilica di San Simpliciano e alla chiesa di San Marco: mentre per la prima rimango purtroppo stupita dall'assenza di sorveglianza (tre ragazzi sono entrati compiendo operazioni poco chiare, probabilmente una "sniffata" e via sul banco), per la seconda vi erano le pulizie in corso che ci hanno però permesso di girare tranquillamente ammirando qualche opera conservata nella struttura religiosa. Mi sono chiesta a cosa fosse riconducibile questo teschio (in foto)... purtroppo mancava la didascalia vicino. Tra me e me ho pensato ai morti di peste, forse perché automaticamente Milano-Manzoni/Promessi Sposi sono un binomio inscindibile per me, ma realmente non so di preciso a cosa sia riferito.


Il secondo giorno è stato dedicato in parte a qualche giro turistico e in parte a prestare aiuto alla sorella con il trasloco. A soli 10 minuti dall'albergo dove alloggiavamo, vi erano due esempi di Liberty. Ero curiosa di andarli a vedere perché ne avevo sentito parlare. 




Ecco, infatti, la Casa Galimberti con le sue maioliche colorate e figurate e, a pochi passi di distanza, la Casa Guazzoni che riprende un po' lo stile del Quartiere Coppedè a Roma.



Per pranzo non è mancato il risotto alla milanese! Sì, è vero che è possibile assaggiarlo ormai un po' ovunque, ma è un classico e non potevo tornare a Roma senza.


Nel pomeriggio, dopo una brevissima visita nel santuario di San Camillo de Lellis che avrei sinceramente voluto ammirare meglio (non potevo però interrompere la celebrazione), io e mia sorella minore ci siamo dirette al Duomo, ignare di trovare una gran confusione.



Il Carnevale non avrebbe dovuto finire già qualche tempo fa? E invece, spuntate in piazza del Duomo risalendo le scale della metro, ci siamo ritrovate letteralmente sommerse da coriandoli e stelle filanti. Bambini, ragazzi e adulti erano festosi e mascherati. 



A disagio, dopo aver scattato qualche foto facendo attenzione a non ricevere schiume spray sull'obiettivo e sui vestiti e aver osservato da lontano la Torre Velasca, siamo praticamente fuggite verso la Galleria Vittorio Emanuele II che non era in condizioni migliori.



Serviva una via di fuga per evitare di ritrovarci mascherate senza la nostra volontà... prendiamo il tram su via Torino diretto alla Basilica di San Lorenzo. So per certo che la piazza inizierà a popolarsi di ragazzi verso sera, ma c'è ancora tempo e abbiamo bisogno di un bel gelato. E finalmente eccoci lì, vicino le colonne, in un momento di calma, a gustare la nostra bella coppetta fresca acquistata da Grom (che per quanto riguarda Milano, almeno per me, è una garanzia).


Con le gambe un po' distrutte, ci incamminiamo verso il tram dirette nuovamente al Duomo e alla fermata metro, mentre nei paraggi passa un ristorante su rotaie, piccolo, elegante e d'altri tempi.


Prima di eclissarci nel mondo metro sotterraneo, lanciamo uno sguardo al Teatro La Scala (solo da fuori purtroppo), dove in serata c'è sicuramente qualche evento importante data l'eleganza degli invitati e i Carabinieri che sorvegliano l'entrata.


Il soggiorno volge quasi al termine, ma è domenica e tutto scorre più lentamente anche nella frenetica Milano. Colazione al bar, preparazione dei bagagli e poi passeggiata in centro. Eccoci di nuovo dalle parti del Duomo, ma il caos del giorno prima è svanito e si cammina più tranquillamente, nonostante le persone invadano comunque le strade. "Dove giriamo? Svoltiamo di qua? Proviamo a prendere Corso Vittorio Emanuele II..."... e ci ritroviamo davanti a un'installazione acquatica by Apple.


Il super affollato Mc Donald's di Babila ci salva da un pranzo con prezzi non propriamente economici (i ristoranti partono da un minimo di 10 euro a portata), per poi proseguire con una passeggiata in tutta tranquillità, entrando nell'immancabile Disney Store da cui siamo usciti con un mini-peluche piedone (il mio è Meeko, il procione di Pocahontas, che farà compagnia alla penna di Rapunzel acquistata proprio lì nel 2012). Lo so, per certe cose non crescerò mai, ma amo la Disney... ognuno ha le sue passioni!


Non può mancare qualche scatto sotto la splendida magnolia giapponese che cresce proprio alle spalle del Duomo, un caffè nei paraggi, un gelatino, un giretto all'interno della gigantesca Feltrinelli sotterranea per poi tornare in albergo a recuperare i bagagli. 


Si è fatto tardi e il treno ci attende alla Stazione Centrale (da attraversare rigorosamente in gruppo e molto velocemente).
Saluto Milano, ma ci tornerò volentieri. Sono una romana atipica forse, ma più che felice di rivederla ogni volta... e poi ho ancora tante mete da visitare! Durante il viaggio di ritorno tento di acculturarmi, anche se la stanchezza a tratti si fa sentire.


Mentre stringo il mio volumetto, chiudo gli occhi, pur rimanendo vigile. Italo corre per lo stivale e Roma si avvicina. Eccoci a Termini: sono le ore 23.35 e la stazione è sorprendentemente vuota, eccezion fatta per le forze dell'ordine che controllano instancabilmente. Tiro un sospiro di sollievo. Almeno qui (stranamente) non dobbiamo correre per andare a prendere il taxi! 

[AVVISO: tutte le foto sono state scattate da me che ne sono la proprietaria e ne detengo il copyright. E' assolutamente proibito usarle per scopi personali senza la mia diretta autorizzazione].
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