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martedì 7 dicembre 2021

Recensione di "Non è questo che sognavo da bambina" di Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio

Buon pomeriggio amici, anche se il cielo è già scuro, i vetri appannati fanno presagire una temperatura esterna molto bassa e gradirei una bella tazza di té bollente in perfetto stile invernale.

Entriamo, però, nel pieno di questo post e parliamo del romanzo "Non è questo che sognavo da bambina" di Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio.


Trama: Neolaureata. Coinquilina. Fuorisede. Precaria. Se dovesse descriversi, Ida lo farebbe così. E da oggi aggiungerebbe alla lista: stagista. Stagista in una grande-e-importante-agenzia-di-comunicazione. Non è quello che sognava da bambina, ma tant’è: dopotutto, non è la prima volta che le cose non vanno nella direzione sperata. Avrebbe voluto vivere ovunque tranne che a Milano, e vive a Milano. Voleva una relazione stabile, ed è stata lasciata. Ha studiato per diventare sceneggiatrice, e invece fa la social media manager. Ogni mattina si trascina verso l’ufficio e, tra meeting, brainstorming e tante altre parole che finiscono in -ing, lì resta fino a sera, impegnata in un lavoro che non riesce a capire che lavoro sia, circondata da colleghi che sono simpatici e brillanti, sì, ma solo tra di loro. Fino al giorno in cui, stanca di una vita che troppo spesso si riduce a essere un pendolo che oscilla tra un file Excel e la prossima sbronza, Ida capisce che, per sopravvivere, deve adattarsi, assomigliare più a loro - i suoi colleghi, il suo capo - e meno a sé stessa. E mentre le ambizioni cambiano e il confine tra giusto e sbagliato si fa inconsistente, rincorrere i suoi sogni diventa un capriccio che non può più concedersi. È ora di crescere: ridimensionare le aspettative e accettare i compromessi. Così, quando le arriva la notizia di un concorso a cui candidare il suo cortometraggio, Ida non sa che fare. Quasi non ricorda più cosa sognasse da bambina, chi volesse diventare. Ma non si può mai mentire del tutto a sé stessi. Almeno, non a quello che c’è in fondo alla propria anima.

Preparatevi: questa non sarà una semplice recensione perché l'argomento mi riguarda in prima persona. Cominciamo, però, dal principio: perché ho acquistato questo libro? Credo non sia difficile da comprendere per chi mi conosce almeno un po': archeologa, 10 anni di studi alle spalle, una laurea triennale, una magistrale, una baccalaurea, una licenza (che equivale a un'altra laura magistrale), un dottorato (riconosciuto in Vaticano e in Italia), un corso di perfezionamento, un master di II livello e mille altri corsi che hanno accresciuto il mio CV fino a farlo diventare un blocco di oltre 20 pagine, ricco di pubblicazioni accademiche e divulgative per giunta. Risultato? Disoccupata. Ma in Italia c'è archeologia ovunque, la storia è fondamentale, il turismo è il "petrolio" di questa nazione. Baggianate. In Italia lavora, almeno nel campo della cultura, chi ha le sue conoscenze (parlo del 99,9 % dei casi; esiste anche lo 0,1% che procede per meritocrazia, solo che non l'ho ancora incontrato) e, come me, esistono centinaia, o forse migliaia, di professionisti privati dei loro sogni, della loro indipendenza, del loro futuro (provate a chiamarci di nuovo bamboccioni, cari vecchietti incollati alle poltrone e traboccanti di denaro).
"Puoi andare all'estero, ci sono i cervelli in fuga!", dicono. Avete provato a leggere i bandi per post doc, o, comunque, per lavorare nel settore archeologico all'estero? Se non lo avete mai fatto, tentate, così vi farete un'idea di quanto ciò che sentite ai TG siano quasi tutte chiacchiere. All'estero si va solo e soltanto se un docente italiano ti presenta. Occorrono almeno 3 lettere di raccomandazione. Ora, non so cosa accada per gli altri settori, ma per il mio questa è la situazione. Si percepisce, purtroppo, un netto scambio di studenti tra università per far sì che il CV di ognuno sia il più "internazionale" possibile.
Quindi no, non posso nemmeno fuggire da questo paese perché i lor signori, coloro che comandano negli atenei e negli istituti di ricerca, hanno deciso che, pur avendo un cervello funzionante e avendo condotto studi importanti, non sarò mai fondamentale quanto gli "yes-men and women" loro sudditi. Ho scelto la libertà intellettuale e per questo sono stata punita. Va bene così, ma qualcuno ai piani alti si renderà conto, tra qualche anno, della situazione, quando le ricerche non andranno avanti e questo paese non produrrà più nulla, quando l'ignoranza dilagherà (purtroppo questo processo è già in atto) e la cultura verrà definitivamente relegata tra hobby e passatempo della domenica pomeriggio.

Torniamo al libro. L'ho acquistato perché il titolo rifletteva in tutto e per tutto il mio stato d'animo e la mia condizione. Ida, la protagonista, sognava di fare la sceneggiatrice e, per un po' di tempo, ha anche tentato a intraprendere quella via. Cosa l'aspettava? Progetti non retribuiti, tentativi su tentativi vedendosi passare avanti un pincopallino qualsiasi, tempi di attesa lunghissima nell'arco dei quali era ufficialmente disoccupata.
Ida, perciò, pur andando contro la sua vocazione, ha deciso di intraprendere uno stage presso la Meeto a Milano, azienda di comunicazione, e di fare la copywriter. In fin dei conti, scrivere le è sempre riuscito bene, quindi quel compito potrà essere tollerabile e fattibile, basterà pensare che grazie a qualche post condiviso sui social, locandine e organizzazione di eventi riuscirà a portare a casa un po' di soldi utili per pagare le bollette, l'affitto, uno spritz... e basta. Eppure non è così semplice: quel nodo in gola rimane, la sceneggiatura diventa quasi un hobby cui si dedica nei ritagli di tempo, i pianti in bagno sono la costante e i colleghi di lavoro sono talmente competitivi che non la invitano nemmeno a pranzo o a bere un caffè.
La vita privata, inoltre, non è un granché: Ida si è lasciata con il ragazzo e quella che considerava la sua migliore amica, Connie, ha deciso di baciarlo scatenando la terza guerra mondiale e una profonda delusione. Il capo ci prova, Ida resiste, poi cede un tantino ed ecco lì che, dallo sguardo un po' più intenso all'abuso di potere, è un attimo.
Solo Gio, la sua amica emigrata in Inghilterra, la capisce veramente e le è vicina nonostante la lontananza geografica. Le email tra le due sono sempre fitte e ricche di ogni sensazione provata.
Bisogna accontentarsi forse. E Ida lo fa, mette da parte i sogni perché quelli non portano soldi e i soldi servono per costruirsi un futuro, una stabilità, quella tranquillità tanto agognata. L'ufficio, d'un tratto, non sembra più un incubo e persino i rapporti con i colleghi si stanno mitigando, ma... è tutto così finto che l'incantesimo si spezza e Ida si ritroverà a scegliere se proseguire su una strada certa che non le appartiene, oppure cambiare e provare a cercare la felicità altrove.


Ida è il ritratto dei giovani d'oggi, o forse non più così giovani (fascia 30-40), quegli stessi dimenticati dalla politica e sui quali l'Europa ha pontificato suggerendo occupazioni che non esistono. Ci hanno detto "studiate con passione e sarete ripagati". No, non è andata così. E stiamo cercando di reinventarci, di combattere spesso da soli contro i mulini a vento, contro chi non ci ascolta, contro chi ci lascia in un angolo perché prendersi la responsabilità di un fallimento sociale sarebbe troppo impegnativo.
Questa è la storia di noi stagisti a vita, di noi che cerchiamo lavoro e ci viene risposto "lavora gratis", di noi che ormai detestiamo il volontariato perché siamo volontari da quando abbiamo terminato l'università, di noi che facciamo guerre tra poveri... perché non abbiamo nulla, se non i sogni che a volte riprendiamo e a volte rinchiudiamo in un cassetto. Questa è anche la storia di noi "giovani" che non possiamo farci una famiglia perché non abbiamo certezze, né soldi per costituirla... è la triste storia di un'Italia che non ha ancora capito come il lavoro possa produrre a sua volta lavoro. Non chiedeteci esperienze pluriennali che non ci avete mai fatto maturare! Non chiedeteci tutte le capacità del mondo, 7 lingue, laurea in informatica e al contempo skills organizzative, culturali, matematiche... dovremmo essere tuttologi. Voi lo eravate quando, a 25/30 anni, avete iniziato a lavorare? Qualcuno di voi non aveva neppure una laurea, invece cosa richiedete a noi giovani? Titoli, pezzi di carta da collezionare per poi non poter mai fare pratica.
Italia, svegliati! Il futuro è nelle mani di coloro che stai ignorando.

Grazie a Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio per aver ritratto, spesso con grande ironia (forse unica salvezza), l'assurda situazione in cui la gran parte di noi si trova ormai confinata da anni.

martedì 29 gennaio 2019

"Bella l'archeologia! E dove lavori?"

Giornata di sole, una delle poche a Roma in queste settimane di pioggia intensa, un miracolo forse dato che già per domani è previsto un acquazzone.
Ho vari giri da fare, come se il mondo si fosse svegliato tutto insieme concentrando il mio coinvolgimento in una giornata sola. Dopo il primo appuntamento, ho intenzione di concedermi un po' di tempo soltanto per me, perdendomi tra le sale di Palazzo Braschi e andando a visitare la piccola mostra temporanea su Paolo VI, "papa degli artisti". Sono curiosa perché conosco poco questo aspetto, soprattutto se legato a una collezione di arte contemporanea che, logicamente, è piuttosto distante dal mondo antico in cui solitamente vivo.

Dicevo, primo appuntamento della giornata: entro nell'edificio super riscaldato, subendo uno sbalzo termico da far paura e pregando che non mi peggiori il raffreddore.
Chiedo informazioni, attendo due minuti, mi siedo, stretta di mano. Tutto a posto, sorrisi di circostanza, qualche parola per rompere il ghiaccio.
- Bene, questo è per lei. Allora come la registro?
- Scusi, in che senso?
- Cosa ha studiato?
- Archeologia... sono archeologa, dottore di ricerca.
- Ah bene, il mondo antico mi affascina. Avrei voluto studiarlo, ma poi ho fatto altro (tipico, penso tra me e me). Dove lavora quindi? Quale riferimento inserisco?

Quello spacco nel mio animo fa di nuovo crack. Lo "scotch da pacchi" ultraresistente che avevo messo per non farmi male non ha evidentemente retto. Anche stavolta subisco il colpo, ma non riesco ad ammortizzarlo completamente.

- Sono archeologa, ma svolgo ricerche in maniera indipendente al momento.
- Nessuna affiliazione? Università, istituto di ricerca...?
- Sono disoccupata. Non so cosa voglia inserire. Scriva quel che più si addice secondo lei.
- Oh, beh... mi dispiace tanto allora...
- Non fa nulla, non sono l'unica.


La signora scrive, con un sorrisetto di commiserazione, ovvero l'ultima cosa che vorrei suscitare. Perché non ho bisogno di essere commiserata, non voglio che la gente provi pietà e mi dica "poverina".
Mi pesa dover dire quel "disoccupata", mi pesa soprattutto dopo 10 anni di intenso studio - una laurea triennale, una magistrale, un corso di perfezionamento, un anno di baccelleriato, uno di licenza e tre di dottorato -, dopo una vita trascorsa tra sopralluoghi, tirocini formativi sugli scavi, ricerche in biblioteca e in archivi. Mi pesa e mi fa star male, alle mie richieste di lavoro con invio di decine e decine di CV, ricevere sempre gli stessi commenti: "Sei troppo formata", oppure "Ci occorre una risorsa con capacità specifiche" che non corrispondono alle mie (si veda bandi di concorso cuciti per i vari candidati). O ancora, l'umiliazione "Se vuoi possiamo collaborare, ma gratuitamente. Sai, con il mondo culturale va così".
No, non va così. Va così in Italia dove i baroni decidono chi inserire nei vari posti, dove i concorsi pubblici lo sono per finta perché è già stato tutto stabilito a tavolino, dove quelli come me che hanno il "difetto" di aver studiato e di avere competenze sono ridotti a un numero in eccesso, a persone inutili.
Sono disoccupata e no, molto probabilmente non rientrerò nemmeno nel famoso reddito di cittadinanza, con il quale comunque non sarei stata d'accordo. Avrei preferito un posto di lavoro normale, anche con uno stipendio moderato, ma che valorizzasse i miei studi, la mia persona, che mi restituisse dignità.

"Il lavoro nobilita l'uomo"... e se il lavoro non si trova, cosa facciamo? La mia generazione si è sentita dire che è piena di bamboccioni, è dovuta emigrare adattandosi a "lavoretti" (non ha scelto di farlo! E' stato quasi un obbligo imposto dalla mancanza di un futuro!), ha dovuto studiare il triplo delle attuali classi dirigenti composte ancora da signori che dovrebbero andare in pensione ma proseguono a rimanere incollati alle loro sedie.

Sono disoccupata e mi sento male ogni volta che qualcuno mi chiede "Cosa vedi nel tuo futuro?"... perché io un futuro non lo vedo più. 


Devo vivere alla giornata e non c'è nulla che mi faccia sentire peggio: si avverte un vuoto, un senso di abbandono. Avevo dei sogni che si sono infranti, avevo degli obiettivi che mi sono stati sottratti. 
Vorrei fare l'archeologa, dico, ma in realtà lo sono già. Allora forse la cosa più sensata da dire è "Vorrei avere un'opportunità, quella che tutti mi stanno negando".
Qualcuno mi ha detto "Prosegui a studiare. Fai anche la scuola di specializzazione". C'è altro che dovrei fare? Ci sono altri soldi che dovrei chiedere ai miei genitori per avere titoli che metterò da parte? Ancora non basta?

Cara segretaria, poco più grande di me, che mi hai guardato con commiserazione, mi viene da domandarmi come abbia ottenuto il posto che ricopri. Sicuramente con merito, ma se così non fosse? So che non te ne importa, ma ci vuole tatto con il prossimo. Non sei al telefono. Hai guardato negli occhi una studiosa che ha affrontato di tutto nella vita, che ha un passato travagliato di cui non parla mai, che ha ottenuto quel poco combattendo con tutte le forze e che non sta con le mani in mano. 
Se è disoccupata, il problema non è in lei, ma nella gente che ha incontrato lungo la sua strada e che ha reso il suo percorso scivoloso e impervio. Quell'archeologa dall'incarnato mediterraneo, con i lunghi capelli castani e lo sguardo acuto non si è mai arresa anche se porta con sé un bagaglio di tristezza. Quell'archeologa ama il suo lavoro, eppure non può esercitarlo.


- Va bene, faccio io.
- Sì, ma qualsiasi cosa, specifichi che gli studi li ho terminati già da due anni.

Esco da lì, comunque a testa alta, ma con quello spacco nell'animo che fa male. Come tutte le ferite, con il tempo passerà. La cicatrice sarà lì in bella mostra, pronta a riaprirsi. Provo a difenderla con lo scudo e un sorriso, ma spesso non ci riesco più. 
Percorro Campo de' Fiori, lancio uno sguardo a Giordano Bruno e proseguo. Il museo mi attende. Mi immergo nuovamente nel passato: se non posso lavorare per tutelarlo, valorizzarlo e studiarlo, almeno nessuno mi impedirà di osservarlo.

sabato 25 febbraio 2017

Recensione di "Giovane carina molla tutto e cambia vita" di Lisa Owens

Buon sabato, amici! Mi prendo una pausa dalle mie ricerche, dedicandomi alla scrittura del blog e, nello specifico, della recensione di "Giovane carina molla tutto e cambia vita" di Lisa Owens. Andiamo a leggere la trama:


A volte bisogna fare un salto nel buio, mollare tutto e seguire i propri sogni. Claire Flannery ha trovato il coraggio di farlo. E adesso? Claire ha lasciato il lavoro per scoprire la sua vera vocazione, ma non sa da che parte cominciare. Correre la maratona di New York? Finire di leggere tutti i classici lasciati a metà? Di fronte a lei ci sono tantissime possibilità, forse troppe. E intanto le giornate passano tra un giro su internet, un bicchiere di vino di troppo a pranzo e gli incoraggiamenti della nonna («Ricordo cosa significa avere la tua età. Certo, io avevo già quattro figli…»). Gli altri intorno a lei sembrano avere tutto sotto controllo, a Claire invece sta sfuggendo tutto di mano. Intenso, tenero e divertente, il brillante esordio di Lisa Owens è la storia di una donna in un delicato momento di cambiamento, il diario di una trentenne confusa e (in)felice: la voce fresca e profonda della nuova generazione è arrivata.

Ho acquistato questo romanzo in un momento particolare, che in realtà è stato solo l'inizio dell'incubo cui vanno incontro tutti i neolaureati e dottori di ricerca Italiani e che genera stati d'animo non troppo confortanti, anzi, li definirei decisamente deprimenti. La fatidica domanda "Che ne sarà di me adesso?" è giunta, senza fare troppi giri di parole. Pensi alla pubblicazione della tua ricerca... d'accordo, ma nessuno ti paga per farla e la stessa pubblicazione non porta lavoro. L'estero? Ci vogliono soldi per andare all'estero. Fai un altro corso? Occorrono comunque soldi e alla fine ti ritrovi al punto di partenza. Borse di studio? Ahahahah una barzelletta per i comuni mortali.
La triste verità è che non si sa quale strada prendere (a meno che qualcuno non l'abbia già tracciata per te, ovviamente, ma non sono casi frequenti). Il mondo della ricerca è tanto bello, quanto frustrante. Più volte passa per la testa il pensiero "mollo tutto e cambio vita", anche se quel sogno che ti tormenta da sempre prosegue insistentemente a farsi largo nei tuoi pensieri e a suggerirti di tenere duro e di crederci.


Ecco perciò che, durante una passeggiata post ricerche archeologiche in biblioteca (si vd. il sogno che non ti abbandona e diventa un'ossessione), mi sono ritrovata in libreria, nuovamente contornata da volumi (non polverosi) e da quel confortante odore di carta stampata. 
Avevo una giftcard da utilizzare e ho notato la copertina azzurra e rosa di questo romanzo, la cui trama rifletteva pensieri a me affini e dalla quale sembrava trapelare un po' d'ironia per tentare di prendere alla leggera una situazione da brivido (alias, disoccupazione).
Eppure questo romanzo non mi ha convinta affatto. Ho letto anche altre recensioni di blogger e a tutte ha fatto un po' lo stesso effetto. Dopo qualche anno di lavoro in un ufficio che non le piaceva, Claire si licenzia per andare alla ricerca di quel che realmente fa per lei. La verità, però, è che la ragazza non conosce esattamente la sua vocazione e tenta di scoprirla. 


Forse andrà bene scrivere le targhe per i monumenti e i luoghi storici? Oppure insegnare in una scuola? Tenta di confrontarsi anche con gli amici, ottenendo spesso l'effetto del non sentirsi adeguata. I suoi coetanei sono sposati, vorrebbero dei figli... mentre lei? Claire convive con Luke, che sta terminando l'apprendistato in Neurochirurgia. E' un uomo paziente, dolce, cui piacerebbe sposarsi e stabilizzare la relazione, ma l'insicurezza di Claire condiziona anche quella scelta.
I genitori di lei sono abbastanza "sconclusionati"... Claire finisce per litigare con sua madre per un aneddoto riguardante il nonno che definirei piuttosto inquietante. Questo fatto - che non anticipo - monopolizza gran parte dei pensieri di Claire quando si tratta della sua famiglia.
A un certo punto sembra esserci una svolta, ma in realtà il lavoro a tempo "determinatissimo" per cui è chiamata riguarda nuovamente il posto che aveva volontariamente lasciato. Claire lo accetta, ma è trattata con una certa inferiorità, soprattutto quando in azienda è entrata la giovane raccomandata di turno.
In sintesi, la vita della protagonista si svolge tra la ricerca nel web di posti di lavoro adatti (e qui la capisco perfettamente), aperitivi, dialoghi con Luke e i dissapori famigliari.


Cosa mi ha lasciato questo romanzo? Poco e niente. L'intento di denunciare, in chiave forse più leggera, la situazione penosa in cui la generazione degli anni '50-'60 ha lasciato noi giovani, non è riuscita per via di una scarsa definizione del personaggio. Claire non ha fondamentalmente un sogno. Si barcamena, senza obiettivi precisi nella vita. Voglio dire, lasci il lavoro perché sostieni che non faccia per te? Bene, ma almeno dedicati a fare ciò per cui ti senti portata! Eppure, lei non lo sa, lei non si conosce e, non conoscendosi, non sa nemmeno dove andare a parare. Di conseguenza, Claire non cambia vita. Rimane nel limbo del "che farò del mio domani?".
Inoltre, un ruolo fondamentale lo ha giocato la tecnica narrativa. Non si tratta di un diario, bensì di una serie di pensieri suddivisi in paragrafi, di riflessioni che probabilmente, nell'intenzione dell'autrice, avrebbero dovuto far immedesimare il lettore con Claire, tentando di pensare (?) come lei. Ahimè, non ha avuto l'effetto desiderato e, spesso, si perde il filo del discorso.
Mi trovo quindi in disaccordo con la critica che aveva acclamato questo romanzo, paragonandolo alla storia di una nuova Bridget Jones. E' comunque un vero peccato perché la narrazione avrebbe potuto essere svolta in maniera nettamente migliore.

Da "Sàkomar" è tutto. Il prossimo romanzo sarà... "Dopo di te" di Jojo Moyes, attesissimo seguito di "Prima di te" che ho decisamente adorato. Speriamo non ci siano delusioni dietro l'angolo.
Buona domenica!
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