Buonasera a tutti, amici lettori, e bentornati sul blog! Sono reduce da una giornata trascorsa sui mezzi pubblici immersa nel traffico che a Roma sta esponenzialmente aumentando... tutti noi romani, anche se non lo diamo a vedere, siamo terrorizzati dall'avvicinarsi del Giubileo perché non riusciremo più a uscire di casa. Ad ogni modo, proviamo a non pensarci... Nella mia borsa, quindi, dati i tempi di percorrenza estremamente lunghi anche per fare 2 metri, non manca mai un libro.
Oggi ho terminato "Storia di una capinera" di Giovanni Verga, un classico.
ATTENZIONE: SPOILER
Correva l'anno 1869 e la giovane Maria, orfana di madre, viene costretta dal padre - che si era risposato e aveva avuto altri due figli - ad entrare in convento. La ragazza, una educanda, aveva trascorso il periodo di istruzione insieme a Marianna, l'amica cui scriverà le sue lettere, fino all'ultimo giorno di vita.
Durante il periodo estivo, complice anche l'imperversare del colera in città, Maria torna a casa dalla sua famiglia e, a Monte Ilice, conosce i vicini, i signori Valentini, che hanno un figlio, Nino, di cui Maria si innamorerà. L'amore ingenuo e puro di Maria si accontenta anche di un semplice sguardo di Nino inizialmente, poi il sentimento che lei avverte come crescente entra in contrasto con il suo destino. E' la stessa Maria che tende a evitare Nino, pur volendo incontrarlo. Eppure tra i due pare esserci una simpatia, che la povera Maria sembra amplificare fino a descriverlo come un amore bruciante.
Terminata l'estate vissuta con spensieratezza in mezzo alla natura, i due non si rivedono più perché ogni famiglia torna a casa propria. Maria riparte verso Catania, dove l'attende il convento di clausura. Proprio prima di prendere i voti (obbligati) definitivi, viene a sapere che la sorellastra Giuditta e Nino si sposeranno. Il suo povero candido cuore si spezza. Non si capacita di come Nino l'abbia potuta dimenticare così facilmente e di come Giuditta abbia potuto farle una cosa del genere, ma tuttavia, pur avvertendo la rabbia crescente, cerca di sopprimerla, sentendo il senso di colpa che si fa strada in lei, pregando e invocando il Signore che le dia forza.
Maria diventa, perciò, monaca di clausura. Prigioniera di un luogo in cui pensava di trovarsi a proprio agio prima di conoscere l'amore, Maria si ammala, dimagrisce e scrive a Marianna con disperazione. Rimpiange i momenti trascorsi in libertà l'estate precedente, in mezzo alla natura e con il suo Nino accanto a sé, quello stesso Nino che tenta di scorgere dalle finestre del convento, facendosi ancora più male perché il ragazzo è sempre accompagnato da Giuditta.
Maria, quindi, vede in Giuditta se stessa: la vita della sorellastra avrebbe potuto essere la sua se il padre non l'avesse obbligata a quel triste destino da cui non poteva sottrarsi in alcun modo.
La ragazza, sull'orlo della follia, tenta persino la fuga, ma viene colta in flagrante dalle consorelle e, troppo debole per reagire, si lascia morire, come la capinera di cui Verga narra all'inizio del romanzo... una capinera cui era stata sottratta la libertà.
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Giovanni Verga è forse il massimo rappresentante del realismo che, logicamente, si riscontra anche in questo romanzo epistolare, sottolineando con crudezza la vicenda di Maria. Si percepiscono i sentimenti della ragazza, sia la voglia di libertà, sia quell'amore crescente (probabilmente non pienamente ricambiato), ma anche la confusione che si genera nel proprio animo: gli obblighi spirituali si scontrano con l'estrema voglia di vivere, di respirare a pieni polmoni l'aria di campagna. E mentre supplica Dio di aiutarla, e si scusa per i propri pensieri peccaminosi, e recita preghiere, Maria in cuor suo non riesce a sopprimere quel vulcano di emozioni che premono insistenti, quasi a sussurrare una tenue speranza che qualcosa possa accadere e che il suo destino possa improvvisamente cambiare.
Le grida di dolore di Maria sono le stesse delle tantissime donne che, almeno fino ai primi decenni del Novecento, sono state costrette dalle proprie famiglie a entrare in convento senza avere la vocazione. Il perché di questa situazione? I figli da sfamare erano troppi e il convento avrebbe provveduto a dar loro un tetto e almeno un piatto di minestra la sera. Solitamente, questa tragica sorte toccava ai figli maggiori oppure a coloro che non si maritavano entro una certa età - le donne dovevano farsi suore e i maschi sacerdoti o frati -, mentre gli altri venivano impiegati nei campi e obbligati a sposarsi tramite matrimoni comunque combinati.
Foto di 🆓 Use at your Ease 👌🏼 da Pixabay
A volte mi chiedo come siamo riusciti a sopravvivere con questo modo di concepire l'esistenza. C'era una crudeltà di fondo inaudita. Non prenderò il discorso dei matrimoni (vogliamo parlare delle unioni per corrispondenza?), rimanendo sul tema conventuale... si parla oggi del calo delle vocazioni, ma siamo tutti pienamente consapevoli che quelle che un tempo erano definite "vocazioni" in realtà erano obblighi. Non c'era fede dietro, ma disperazione, povertà. La chiesa, bene o male, assicurava un futuro a quei ragazzi sfortunati... situazione che notiamo ancora oggi, quando la maggioranza delle suore e dei sacerdoti provengono da paesi del terzo mondo.
Sono certa che tra loro ci siano persone che avvertono realmente la vocazione, ma sono altrettanto sicura che siano in numero molto esiguo rispetto a coloro che, pur di non morire di fame al proprio paese, decidono attualmente di consacrare la propria vita, usufruendo di un'istruzione, di vitto e alloggio.
Si tratta di un mio personale pensiero, che non voglio in alcun modo generalizzare e con cui non intendo certamente offendere nessuno. Ma amo il realismo, quello stesso di Giovanni Verga e non possiamo, né dobbiamo bendarci gli occhi.
"Storia di una capinera" è certamente una lettura consigliata in quanto, come anticipato, si tratta di un classico. Aspettatevi però di uscirne devastati moralmente. Avrei tanto voluto abbracciare Maria e tirarla fuori di lì.
Vi auguro una buona serata e vi aspetto sul blog con la prossima recensione!
p.s. non dimenticate di leggere le precedenti e, quando capita, ricordatevi anche dei miei romanzi scritti "in gioventù". Sono sempre lì, ad attendere qualche lettore appassionato di fantasy puro (trilogia di Sàkomar: "Il Regno dell'Acqua"; "Il risveglio"; "Il Quinto Elemento"), o di licantropi e storia (eh sì, perché in "Chiaro di Luna" troviamo una cattedrale, un convento francescano, Friburgo, un cavaliere, un mago e una maledizione... insomma un mix).
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