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martedì 27 aprile 2021

Recensione di "Le città invisibili" di Italo Calvino

Buonasera amici, finalmente torno sul blog in un brevissimo momento di pausa e con tanti propositi, tra cui quello di tornare a lavorare su Sàkomar e "Chiaro di Luna" provando a riproporli a una casa editrice.
Chissà...
Seppure in ritardo rispetto al bravo lettore, anche io ho letto - nell'arco di questo mese - "Le città invisibili" di Italo Calvino.



Dirò la verità: non ho mai amato i libri di Calvino. Sarà perché sono stata obbligata a leggerli in tre giorni al liceo, sarà perché forse tra autore e lettore deve instaurarsi una certa sintonia che in me non è scattata all'epoca. Ma a volte è necessario espandere la propria cultura. Su suggerimento di mio padre e di un amico "fan" di Calvino, alla fine ho ceduto.

L'intero libro si basa sul racconto che Marco Polo, grande esploratore e conoscitore del mondo, espone a Kublai Khan, il noto conquistatore e condottiero mongolo.
Si susseguono, edificandosi dalle parole di Polo, città strane, fantastiche, ricche di odori, colori, sensazioni. Infatti, non è una semplice descrizione oggettiva quella che emerge da questo monologo (è dialogo solo in alcune parti) interminabile, bensì soggettiva: ogni osservatore percepisce il mondo secondo il proprio punto di vista. La realtà stessa esiste perché l'osservatore la sta guardando.
Ecco che Calvino introduce il lettore, tramite uno stratagemma fondato su due personaggi particolari, all'interno dei mondi alternativi, delle varie realtà e direi anche dell'universo quantistico.
Una stessa città per un viaggiatore può essere in un modo, ma per quello successivo tende ad essere completamente diversa.
Sono tutte città collegate tra loro quelle di Calvino, probabilmente proprio grazie all'elemento comune: Marco Polo che le ha osservate, visitate, vissute.
Eppure, chi può dire, invece, se queste stesse città di cui Polo fornisce una descrizione tanto dettagliata, esistano sul serio e non siano frutto della sua immaginazione? Chi stabilisce, infine, quale sia la realtà? Sono meno "vere" quelle città perché esistenti solo nella mente di Marco Polo?
Calvino spinge perciò a interrogarci su alcuni dei quesiti più complessi a metà tra il filosofico e la fisica pura, in un rimescolamento di realtà e fantasia che, a volte, non sembrano più così differenti tra loro.

Ora, quel che penso io: la filosofia mi è sempre piaciuta, così come ragionare su questioni come la relatività e l'esistenza di universi alternativi (chi ha letto la saga di Sàkomar saprà che non sono solo appassionata, ma piuttosto "fissata"). Non è sicuramente una lettura leggera perché nonostante le descrizioni possano sembrare ripetitive, in realtà non lo sono affatto: ogni città contiene un messaggio che l'autore vuole inviare al lettore. Proprio per questo "Le città invisibili" di Italo Calvino è un libro che deve essere letto, ma con molta molta calma, proprio come Kan e Polo che, seduti a fumare la pipa, parlano tra loro, immaginando e creando universi.


«Ormai da quel suo passato vero o ipotetico, lui è escluso; non può fermarsi; deve proseguire fino a un'altra città dove lo aspetta un altro suo passato, o qualcosa che forse era stato un suo possibile futuro e ora è il presente di qualcun altro. I futuri non realizzati sono solo rami del passato: rami secchi.

- Viaggi per rivivere il tuo passato? - era a questo punto la domanda del Kan, che poteva anche essere formulata così: - Viaggi per ritrovare il tuo futuro?
E la risposta di Marco: - L'altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà».

«E' delle città come dei sogni: tutto l'immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un'altra».

«Pensai: si arriva a un momento della vita in cui tra la gente che si è conosciuta i morti sono più di vivi. E la mente si rifiuta d'accettare altre fisionomie, altre espressioni: su tutte le facce nuove che incontra, imprime i vecchi calchi, per ognuna trova la maschera che s'adatta di più».

«Al soffio che portava via il fumo Marco pensava ai vapori che annebbiano la distesa del mare e le catene delle motagne e al diradarsi lasciano l'aria secca e diafana svelando città lontane. Era al di là di quello schermo d'umori volatili che lo sguardo voleva giungere: la forma delle cose si distingue meglio in lontananza».


«Polo: -... Forse questo giardino affaccia le sue terrazze solo sul lago della nostra mente...
Kublai: -... e per lontano che ci portino le nostre travagliate imprese di condottieri e di mercanti, entrambi custodiamo dentro di noi quest'ombra silenziosa, questa conversazione pausata, questa sera sempre eguale. [...]
Polo: - Che i portatori, gli spaccapietre, gli spazzini [...] esistano solo perché noi li pensiamo.
Kubali: - A dire il vero, io non li penso mai.
Polo: - Allora non esistono».

«Anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città infelicee contiene una città felice che nemmeno sa d'esistere».

«Ma la cosa di cui volevo avvertirti è un'altra: che tutte le Berenici future sono già presenti in questo istante, avvolte l'una dentro l'altra, strette pigiate indistricabili».

«L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

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