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martedì 7 marzo 2023

Recensione di "Il Consiglio d'Egitto" di Leonardo Sciascia

Buonasera a tutti, amici lettori. Bentornati a Sàkomar, dove la sottoscritta vi introdurrà la recensione di un romanzo di Leonardo Sciascia. Non avevo mai letto nulla di questo autore, pur avendone sentito parlare. Siete pronti ad entrare nel bel mezzo dell'impostura?


Trama: Abdallah Mohamed ben Olman, ambasciatore del Marocco, si trova a Palermo nel dicembre 1782 per via di una tempesta che ha fatto naufragare la sua nave sulle coste siciliane. È questo il caso che fa nascere, nella mente dell'abate Vella, maltese e incaricato di mostrare all'ambasciatore le bellezze di Palermo, un disegno audacissimo: far passare il manoscritto arabo di una qualsiasi vita del profeta, conservato nell'isola, per uno sconvolgente testo politico, Il Consiglio d'Egitto, che permetterebbe l'abolizione di tutti i privilegi feudali e potrebbe perciò valere da scintilla per un complotto rivoluzionario. Apparso nel 1963, Il Consiglio d'Egitto è in certo modo l'archetipo, e il più celebrato, dei romanzi-apologhi di Sciascia, dove lo sfondo storico della vicenda si anima fino a diventare una scena allegorica, che in questo caso accenna alla storia tutta della Sicilia.

Siamo nella Sicilia del Settecento, a Palermo, dove l'ambasciatore del marocco ha un problema di navigazione. Il Viceré Caracciolo si rivolge all'abate Giuseppe Vella, noto per la sua conoscenza della lingua araba, in un periodo in cui è quasi sconosciuta in una terra che, pure, era stata araba.
Insieme a Monsignor Airoldi, l'abate Vella mostrerà a Ibn Hamdis un "misterioso" codice manoscritto custodito nel monastero di San Martino: si dice sia molto importante, pregiato, invece è una semplice storia della vita di Maometto. Una volta partito l'ambasciatore, Vella non vuole rinunciare agli agi e convince Airoldi ad affidargli la traduzione del testo. Vella lo modifica, slegandolo e ricomponendolo senza un ordine, riscrivendolo addirittura e inventando di sana pianta i caratteri mauro-siculi. Effettua quelle che chiameremmo alterazioni e contraffazioni: nel suo laboratorio conventuale, l'abate di San Pancrazio (attenzione, non è un caso che Sciascia abbia scelto questo santo) prosegue, sempre più emozionato a produrre i documenti della sua impostura. Il codice di San Martino viene trasformato nel Consiglio di Sicilia, in cui ricostruisce a fantasia la storia del Regno.
Crea, in seguito, un intero codice falso, "Il Consiglio d'Egitto", generando scompiglio tra la nobiltà perché la storia delle proprietà terriere viene totalmente rimodulata e, di conseguenza, le tasse aumentano in base ai dati catastali. Intanto è proprio la nobiltà a cercare Vella, tentando di ingraziarselo: è come se le sue mani di traduttore tenessero i fili della sorte degli aristocratici siciliani.
Intanto l'avvocato Di Blasi, l'illuminista, che pure ha conosciuto Vella, cerca di guidare una congiura.
Il romanzo proseguirà finché l'imbroglio non viene scoperto: si investiga sull'abate Vella, il suo studio viene messo a soqquadro, vengono raccolte le prove (l'assistente di Vella, Cammilleri, confessa), ma sarà lo stesso Giuseppe Vella, infine, stanco delle vicende, a dire la verità. Infine, Di Blasi sarà condannato a morte per i suoi piani, ma anche qui il finale non è certamente ovvio.

Il romanzo di Sciascia si pone sulla linea della narrazione allegorica, "celando" in sé le vicende che coinvolgono la Sicilia in quegli anni: i principi dell'illuminismo fanno gran fantica a innestarsi nel Regno di Napoli, dove ancora le trame della nobiltà e della Corona sono troppo radicate.
Il tutto sfocia, quindi, nei due personaggi principali: Vella che trama un'impostura basata sulla falsificazione storica e Di Blasi che, invece, cospira, organizzando un mutamento radicale. Ma nemmeno questo basterà a far cambiare quella società.

Ho ritenuto ammirevole la costruzione del personaggio dell'abate Vella, con il suo studio quasi alchemico, in cui falsifica manoscritti, partecipando poi alla vita sociale, aristocratica, ingraziato da coloro che sono interessati affinché non si perdano le proprietà. L'impostura di Vella rivela, in realtà, una mentalità che, purtroppo, ancora va avanti: in cambio di un favore, tu dai qualcos'altro a me, anche se ciò può produrre un danno.

Foto di Kira da Pixabay

Mi preme, infine, sottolineare un dettaglio che, forse, solo un'archeologa cristiana poteva notare: il fatto che Vella sia associato a San Pancrazio (abate di San Pancrazio). A questo santo, sepolto sulla via Aurelia Antica, nell'omonima catacomba romana su cui sorse poi la basilica, "non piacevano le bugie": gli spergiuri che si avvicinavano al suo sepolcro, infatti, sarebbero morti prima di giungere a destinazione. Curioso l'abbinamento Vella/bugiardo e mentitore con San Pancrazio: una sottile ironia che l'autore sapientemente usa nella narrazione.
Vi lascio con alcune citazioni e vi aspetto alla prossima recensione!


«Ho visto tante volte la verità confusa e la menzogna assumere le apparenze della verità...»

«"In effetti" disse l'avvocato Di Blasi "ogni società genera il tipo d'impostura che, per così dire, le si addice. E la nostra società, che è di per sé impostura, impostura giuridica, letteraria, umana... Umana, sì: addirittura dell'esistenza, direi... La nostra società non ha fatto che produrre, naturalmente, ovviamente, l'impostura contraria...»

«L'abate aprì il breviario: fingeva di leggerlo, gli occhi fermi sulla carrozza. E si diceva che quel che stava facendo era stupido, persino ridicolo: come tutte le cose dettate dal sentimento, che solo nella sfera del sentimento hanno significato e sono invece grottesche nella realtà».

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