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lunedì 7 ottobre 2024

Recensione di "Storia di una capinera" di Giovanni Verga

Buonasera a tutti, amici lettori, e bentornati sul blog! Sono reduce da una giornata trascorsa sui mezzi pubblici immersa nel traffico che a Roma sta esponenzialmente aumentando... tutti noi romani, anche se non lo diamo a vedere, siamo terrorizzati dall'avvicinarsi del Giubileo perché non riusciremo più a uscire di casa. Ad ogni modo, proviamo a non pensarci... Nella mia borsa, quindi, dati i tempi di percorrenza estremamente lunghi anche per fare 2 metri, non manca mai un libro.

Oggi ho terminato "Storia di una capinera" di Giovanni Verga, un classico.


ATTENZIONE: SPOILER

Correva l'anno 1869 e la giovane Maria, orfana di madre, viene costretta dal padre - che si era risposato e aveva avuto altri due figli - ad entrare in convento. La ragazza, una educanda, aveva trascorso il periodo di istruzione insieme a Marianna, l'amica cui scriverà le sue lettere, fino all'ultimo giorno di vita.

Durante il periodo estivo, complice anche l'imperversare del colera in città, Maria torna a casa dalla sua famiglia e, a Monte Ilice, conosce i vicini, i signori Valentini, che hanno un figlio, Nino, di cui Maria si innamorerà. L'amore ingenuo e puro di Maria si accontenta anche di un semplice sguardo di Nino inizialmente, poi il sentimento che lei avverte come crescente entra in contrasto con il suo destino. E' la stessa Maria che tende a evitare Nino, pur volendo incontrarlo. Eppure tra i due pare esserci una simpatia, che la povera Maria sembra amplificare fino a descriverlo come un amore bruciante.

Terminata l'estate vissuta con spensieratezza in mezzo alla natura, i due non si rivedono più perché ogni famiglia torna a casa propria. Maria riparte verso Catania, dove l'attende il convento di clausura. Proprio prima di prendere i voti (obbligati) definitivi, viene a sapere che la sorellastra Giuditta e Nino si sposeranno. Il suo povero candido cuore si spezza. Non si capacita di come Nino l'abbia potuta dimenticare così facilmente e di come Giuditta abbia potuto farle una cosa del genere, ma tuttavia, pur avvertendo la rabbia crescente, cerca di sopprimerla, sentendo il senso di colpa che si fa strada in lei, pregando e invocando il Signore che le dia forza.

Foto di Joshgmit da Pixabay

Maria diventa, perciò, monaca di clausura. Prigioniera di un luogo in cui pensava di trovarsi a proprio agio prima di conoscere l'amore, Maria si ammala, dimagrisce e scrive a Marianna con disperazione. Rimpiange i momenti trascorsi in libertà l'estate precedente, in mezzo alla natura e con il suo Nino accanto a sé, quello stesso Nino che tenta di scorgere dalle finestre del convento, facendosi ancora più male perché il ragazzo è sempre accompagnato da Giuditta.

Maria, quindi, vede in Giuditta se stessa: la vita della sorellastra avrebbe potuto essere la sua se il padre non l'avesse obbligata a quel triste destino da cui non poteva sottrarsi in alcun modo.

La ragazza, sull'orlo della follia, tenta persino la fuga, ma viene colta in flagrante dalle consorelle e, troppo debole per reagire, si lascia morire, come la capinera di cui Verga narra all'inizio del romanzo... una capinera cui era stata sottratta la libertà.


Giovanni Verga è forse il massimo rappresentante del realismo che, logicamente, si riscontra anche in questo romanzo epistolare, sottolineando con crudezza la vicenda di Maria. Si percepiscono i sentimenti della ragazza, sia la voglia di libertà, sia quell'amore crescente (probabilmente non pienamente ricambiato), ma anche la confusione che si genera nel proprio animo: gli obblighi spirituali si scontrano con l'estrema voglia di vivere, di respirare a pieni polmoni l'aria di campagna. E mentre supplica Dio di aiutarla, e si scusa per i propri pensieri peccaminosi, e recita preghiere, Maria in cuor suo non riesce a sopprimere quel vulcano di emozioni che premono insistenti, quasi a sussurrare una tenue speranza che qualcosa possa accadere e che il suo destino possa improvvisamente cambiare.

Le grida di dolore di Maria sono le stesse delle tantissime donne che, almeno fino ai primi decenni del Novecento, sono state costrette dalle proprie famiglie a entrare in convento senza avere la vocazione. Il perché di questa situazione? I figli da sfamare erano troppi e il convento avrebbe provveduto a dar loro un tetto e almeno un piatto di minestra la sera. Solitamente, questa tragica sorte toccava ai figli maggiori oppure a coloro che non si maritavano entro una certa età - le donne dovevano farsi suore e i maschi sacerdoti o frati -, mentre gli altri venivano impiegati nei campi e obbligati a sposarsi tramite matrimoni comunque combinati.


A volte mi chiedo come siamo riusciti a sopravvivere con questo modo di concepire l'esistenza. C'era una crudeltà di fondo inaudita. Non prenderò il discorso dei matrimoni (vogliamo parlare delle unioni per corrispondenza?), rimanendo sul tema conventuale... si parla oggi del calo delle vocazioni, ma siamo tutti pienamente consapevoli che quelle che un tempo erano definite "vocazioni" in realtà erano obblighi. Non c'era fede dietro, ma disperazione, povertà. La chiesa, bene o male, assicurava un futuro a quei ragazzi sfortunati... situazione che notiamo ancora oggi, quando la maggioranza delle suore e dei sacerdoti provengono da paesi del terzo mondo.
Sono certa che tra loro ci siano persone che avvertono realmente la vocazione, ma sono altrettanto sicura che siano in numero molto esiguo rispetto a coloro che, pur di non morire di fame al proprio paese, decidono attualmente di consacrare la propria vita, usufruendo di un'istruzione, di vitto e alloggio.
Si tratta di un mio personale pensiero, che non voglio in alcun modo generalizzare e con cui non intendo certamente offendere nessuno. Ma amo il realismo, quello stesso di Giovanni Verga e non possiamo, né dobbiamo bendarci gli occhi.
"Storia di una capinera" è certamente una lettura consigliata in quanto, come anticipato, si tratta di un classico. Aspettatevi però di uscirne devastati moralmente. Avrei tanto voluto abbracciare Maria e tirarla fuori di lì.

Vi auguro una buona serata e vi aspetto sul blog con la prossima recensione!

p.s. non dimenticate di leggere le precedenti e, quando capita, ricordatevi anche dei miei romanzi scritti "in gioventù". Sono sempre lì, ad attendere qualche lettore appassionato di fantasy puro (trilogia di Sàkomar: "Il Regno dell'Acqua"; "Il risveglio"; "Il Quinto Elemento"), o di licantropi e storia (eh sì, perché in "Chiaro di Luna" troviamo una cattedrale, un convento francescano, Friburgo, un cavaliere, un mago e una maledizione... insomma un mix).

domenica 26 settembre 2021

Recensione di "Il momento giusto" di Danielle Steel

Buona domenica, amici! Siamo entrati nella stagione autunnale e io proseguirò ad avere nostalgia del caldo estivo. Sono un'inguaribile romantica, innamorata dei tramonti infuocati sul mare, delle letture in spiaggia, del sole sulla pelle, dell'abbronzatura dorata.
Per qualche minuto, quindi, vi riporto indietro di circa un mese, ad agosto, quando ho terminato la lettura di "Il momento giusto" di Danielle Steel.



Trama: Abbandonata dalla madre quando aveva appena sette anni, Alexandre Winslow cresce con l'adorato padre Eric, che infonde in lei un grandissimo amore per la lettura. Le sere passate a leggere insieme libri gialli portano Alex a cimentarsi nella scrittura, ed è già dai primi racconti che la ragazza dimostra di avere un talento innato. Eric, il suo primo sostenitore, la incoraggia a seguire la sua dote, mettendola però in guardia: pochi crederebbero che una giovane donna possa essere l'autrice di storie tanto terrificanti, e molti uomini ne sarebbero invidiosi. Per questo, se in futuro vorrà continuare a scrivere, le suggerisce di usare uno pseudonimo maschile. Nel tempo, Alex non abbandona mai la sua passione, e anche il dolore per la morte del padre trova sfogo sul foglio di carta. La ragazza scrive in ogni momento libero, dando vita a trame, temi e personaggi che popolano la sua mente. Così, a metà college finisce il suo primo romanzo, che incontra subito l'interesse di un editore. Ricordando il monito del padre, la ragazza sceglie di pubblicare sotto lo pseudonimo di Alexander Green, e il suo libro diventa subito un bestseller. Ma la fama attira anche le invidie di molti, e ogni uomo che Alex prova a fare entrare nella sua vita si rivela essere geloso del successo di Alexander. Troverà mai qualcuno a cui poter confidare la sua vera identità? La persona giusta arriverà al momento giusto, e sarà nel più inaspettato dei modi.

C'è un momento giusto per ogni cosa: per i propri sogni, per innamorarsi, per crescere. Questo Alex non lo sa ancora quando viene abbandonata dalla madre scapestrata e quando suo padre muore lasciandola sola al mondo. A farle compagnia c'erano unicamente i libri gialli che leggeva con il papà e la passione irrefrenabile per la scrittura. La vita ha in serbo per lei tante sorprese e un grande successo. Quella giovane ragazzina sfortunata, grazie a un avvocato e a un gruppo di suore, riuscirà a coronare il proprio sogno diventando un'affermata scrittrice di thriller.
La strada è soddisfacente, ma costellata di insidie, soprattutto a livello sentimentale. Gli uomini che Alex conosce sono invidiosi e soffrono di sindromi di inferiorità, lasciandola ogni volta ferita. La scrittura è la sua unica ragione di vita e, proprio quando non se lo aspettava, ecco giungere l'uomo giusto, quello capace di riattivare il cuore e rendere tutto più bello.


Danielle Steel "gioca" in casa: la protagonista vuole essere una scrittrice e ci riuscirà nonostante tutto; l'autrice, con ogni probabilità, inserisce elementi tratti dall'esperienza personale. Quello della scrittura è un mondo ambizioso, fatto di pregiudizi (le donne sono meno brave degli uomini a scrivere gialli) e di apparenze (ne è dimostrazione lo pseudonimo maschile adottato da Alex), però terribilmente affascinante.
Attraverso l'inchiostro prendono vita personaggi, storie, sentimenti che esistono solo nella mente dell'autore, condivisi poi con ogni lettore.
"Il momento giusto" è un romanzo dedicato a chi ha un sogno e farebbe di tutto pur di realizzarlo; a chi non si arrende mai, a chi spera sempre che domani sarà un giorno migliore.

venerdì 14 febbraio 2020

Recensione di "Perché l'amore qualche volta ha paura" di Guillaume Musso

Sono le 24.00 passate. E' tardi, lo riconosco... tardi per le "persone normali", non per la sottoscritta che ha sempre studiato e ricercato fino alle prime ore della notte, quando la luna era ormai alta nel cielo e le stelle rischiaravano la città silenziosa.
Sto ascoltando la nuova canzone di Francesco Gabbani, "Viceversa", portata sul parco dell'Ariston di Sanremo. Le sue parole mi risuonano in testa e non riesco a pensare altro se non a "questa è una poesia". Francesco Gabbani narra l'amore nel senso più ampio del termine, come un qualcosa di perfetto nella sua imperfezione, nei litigi che avversano una coppia, ma anche nello scambio di tenerezza e di dolcezza che nasce dai baci e si espande attraverso le carezze e gli abbracci. Parla di quell'amore che tutti, almeno una volta nella vita, dovrebbero provare a vivere... anche se non a ognuno, purtroppo, è concesso questo grande dono.

In ogni caso, buonasera o buonanotte, come preferite. Nel primo pomeriggio di ieri ormai, ho preso in mano l'ultimo libro che avevo in lettura e ho terminato di sfogliare le sue pagine. Si tratta di "Perché l'amore qualche volta ha paura" di Guillaume Musso. Mi aveva attratta il titolo... perché è vero, l'amore a volta ha paura, ma fa anche paura. E la paura di lasciarsi andare a un sentimento così raro (non parlo di infatuazione o di passione, ma di amore vero), spesso congela per sempre le migliori storie tra due persone plasmate l'una per l'altra.
Poi è accaduta un'altra cosa nel mio processo di "conoscenza" con il libro: ho deciso di leggere qualche riga random. Potevo rimanere indifferente alla storia di un ladro d'arte e di un poliziotto impiegato nell'OCBC francese, ovvero il reparto destinato a combattere i crimini contro il patrimonio culturale? Forse era semplicemente destino e l'ho acquistato.


Trama: Gabrielle ha due uomini nella sua vita. Uno è suo padre. L'altro il suo primo amore. Uno è un famoso poliziotto. L'altro un imprendibile ladro. Anni fa li ha persi entrambi. Ma il destino ha deciso di farglieli incontrare di nuovo. I due uomini si conoscono, si odiano e si sfidano a morte. Gabrielle si rifiuta di scegliere fra loro. Vorrebbe proteggerli, farli riappacificare e amarli entrambi. Ma ci sono duelli da cui non si può uscire vivi. A meno che. Dai tetti di Parigi alla romantica San Francisco, un primo amore che illumina una vita intera, una storia avvincente, piena di suspense e di magia.


Prima di cominciare, vorrei avvertire che, nonostante abbia fatto molta attenzione, potrebbe essere sfuggito qualche elemento considerabile come SPOILER.

Tutto ha inizio nel 1995. Gabrielle e Martin sono due studenti universitari. Si conoscono, innamorandosi perdutamente l'una dell'altra. Martin, però, è francese e deve tornare a Parigi. Pur avendo rimandato la partenza, alla fine arriva quel triste momento in cui dirsi addio. Mentre Gabrielle rimane a S. Francisco, Martin prosegue a pensare a lei, escogitando un solo modo possibile per rivederla: darle appuntamento, magari a New York, il 24 dicembre. Quel giorno, però, Gabrielle non si presenterà, segnando per sempre il futuro sentimentale del giovane.


Anni dopo, Martin è ormai un poliziotto. Dopo un periodo trascorso nella narcotici a combattere lo spaccio di droga, ha deciso di essere trasferito nell'OCBC - Office central de lutte contre le trafic de biens culturels - dove da anni dà la caccia ad Archibald, abile ladro di opere d'arte.
L'ultimo colpo, diretto all'autoritratto di Van Gogh, è stato completamente monitorato da Martin, fino ad arrivare a un inseguimento per le strade di Parigi che ha condotto il poliziotto a precipitare in acqua con una copia del dipinto, abilmente scambiata dal ladro.


Archibald è diventato per Martin il vero e proprio obiettivo e, allo stesso tempo, per Archibald è Martin ad essere il fine ultimo dei suoi furti: lui vuole farsi seguire. Ma perché?
La vita, a volte, è talmente assurda che, nonostante i mille giri che ti costringe a fare, riuscirà ad intrecciare i fili con quelli di altre persone che sembrano "destinate" ad incontrarti. Ed ecco che Archibald è in realtà il padre che Gabrielle non ha mai conosciuto. Questo Martin non lo sa quando, ancora sulle tracce del ladro, si ritrova a S. Francisco... tornando per caso a specchiarsi negli occhi della ragazza che, tanti anni prima, gli aveva fatto battere il cuore.
Il destino ha ancora in serbo per Gabrielle, Archibald e Martin ulteriori colpi di scena che termineranno con un finale in uno stile che echeggia Lost (chi ha visto la serie fino all'ultima puntata, sa di cosa stia parlando).


Complessivamente il romanzo non mi è dispiaciuto. E' stata una lettura scorrevole, ma a volte un po' scontata. Ho apprezzato molto il fatto che Martin fosse un poliziotto di un reparto speciale dedicato all'arte, cui di solito non si fa mai riferimento nella narrativa. Si nota anche quanto l'autore si sia informato a riguardo prima di costruire un background di uno dei suoi protagonisti... eppure come poliziotto dell'OCBC non è troppo credibile. Martin riesce a farsi scappare il ladro dopo aver monitorato le sue mosse per ore; riesce a farlo fuggire quando potrebbe farsi aiutare da una squadra di colleghi che era giunta sul posto; riesce persino a farsi "mollare" un grandioso dipinto falso... tant'è che mi sono ritrovata a dire "non era meglio che rimanessi nella narcotici, caro Martin? Forse l'OCBC non fa per te".
Critiche a parte sul mestiere, credo che la narrazione sia stata eccessivamente incentrata su Archibald, tralasciando un bel po' il passato di Martin ad esempio (si capisce bene come abbia trascorso un'infanzia e un'adolescenza difficili, ma il lettore non ha ulteriori dettagli in merito), così come quello di Gabrielle della quale vengono sottolineati solo pochi episodi salienti.
Il filo "rosa" che lega tutti loro, essendo io stessa una romantica di fondo, l'ho trovato molto intrigante. Il fatto che esista una sorta di "predestinazione" tra anime affini mi ha affascinata (probabilmente perché ho potuto effettuare confronti reali dentro di me...), così come l'esistenza di quella seconda possibilità che la vita a volte ci offre per poter raggiungere chi amiamo veramente.


Inoltre, l'autore propone una visione di quello spazio, o limbo, collocato a metà strada tra la vita e la morte (alcuni dei protagonisti si trovavano in uno stato di coma) che è del tutto particolare. Ripeto, mi ha ricordato Lost, ma è ancora diverso: Musso ipotizza un grande aeroporto da cui si può uscire esclusivamente imbarcandosi su un aereo diretto verso la vita, o verso la morte. In queste immense sale d'attesa si incontrano anime che, per un motivo o per l'altro, si sono incrociate nella realtà, ritrovandosi a condivere momenti decisivi per un futuro che nessuno conosce.  
Infine, l'amore tra Gabrielle e Martin che resiste al tempo, alle avversità, alle casualità e alle sfide mi sembra surreale, ma forse per questo magnifico; allo stesso modo, Archibald, ladro gentiluomo, ancora perdutamente innamorato di Valentine - madre di Gabrielle - mi ha trasmesso tanta tenerezza.
In sintesi, "Perché l'amore qualche volta ha paura" è un bel libro, ma sinceramente mi sarei aspettata qualcosa in più.
Termino con qualche estratto che ho amato particolarmente.

«Era scettico su molte cose, ma credeva nelle virtù terapeutiche dell'arte; era convinto che attraverso la cultura si potesse ricostituire l'immagine di sé e confidava nel potere resiliente della creatività».

«Martin comprese allora che né il tempo né la distanza avevano affievolito il suo amore. Ma un amore che fa soffrire da morire è davvero amore?».

«[...] Perché la propria anima gemella può essere nel contempo la propria anima dannata».

«Alla fine Martin aprì la bocca per dire quello che aveva in cuore: "Il guaio è la solitudine generata dal dolore. E' quella che ti uccide a poco a poco, che ti isola dagli altri e dal mondo. E che risveglia tutto ciò che c'è di peggio in te". Gabrielle non cercò di eludere la discussione. "Amare è sempre pericoloso, Martin. Amare significa sperare di vincere tutto rischiando di perderlo e significa anche, a volte, accettare il rischio di essere meno amati di quanto si ami"».

«[...] Perché fa paura essere amati. Perché la vita è complicata e troppo spesso si diverte a mandarti la persona giusta al momento sbagliato».


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